Clinica per il cambio di sesso a processo: «Noi usati come cavie»
«Vivo in un mondo in cui non trovo spazio né come maschio né come femmina». Ecco la storia di Keira, 23 anni, che ha deciso insieme ad altre vittime e medici di denunciare la clinica Tavistock di Londra, nota per i processi di blocco della pubertà di bambini e minorenni in vista delle operazioni chirurgiche di rimozione dei genitali o del seno. In Italia non siamo lontani, ma forse saranno questi piccoli a frenare il business ideologico.
«Vivo in un mondo in cui non trovo spazio né come maschio né come femmina. Sono bloccata nel mezzo fra due sessi». Come mai Keira, 23 anni, tema lo sguardo delle altre donne, una volta raggiunti gli spogliatoi o i bagni femminili, lo ha spiegato raccontando la sua vicenda per cui ha deciso insieme ad altre vittime e medici (qui e qui) di denunciare la clinica Tavistock di Londra, nota per i processi di blocco della pubertà di bambini e minorenni in vista delle operazioni chirurgiche di rimozione dei genitali o del seno. «Mi scambiano tutti per un maschio», ha chiarito la giovane che, nonostante le braccia esili e le mani affusolate, pare un solo un maschio un po' effemminato (come tanti oggi).
La clinica sotto accusa è quella per cui all’inizio del 2019 dieci dei suoi medici avevano denunciato la lobby trans per le pressioni sugli interventi di transizione e per cui Marcus Evans, psicoterapeuta ed ex manager della Tavistock, si era dimesso parlando del rischio per i medici contrari alle transizioni «di accusa di transfobia e anche di un richiamo disciplinare o persino del licenziamento». Evans aveva quindi riportato la storia di Dagny, una donna che da adolescente si sentiva un uomo e che ora ha scelto di tornare sui propri passi. Dopo di lui si dimisero decine di altri medici ora a processo con Kaira.
L’incubo di questa ragazza, iniziato come un sogno, cominciò sette anni fa, quando aveva 16 anni e, confusa, fu indirizzata alla clinica. Si immaginerebbe che dopo ore di colloqui di approfondimento, da cui risultava un desiderio fermo e radicato di essere maschio, gli “esperti” avessero deciso di proseguire con i trattamenti ormonali, invece dopo sole tre ore di colloqui cominciò il bombardamento per bloccare la pubertà della ragazzina con la prescrizione del testosterone. Poi, dopo un processo che lei definisce di “montagne russe”, Keira ha pensato che l’unica via d’uscita al suo malessere, che comunque persisteva, fosse l’operazione chirurgica per apparire del sesso opposto al suo. Così raggiunta la maggiore età si sottopose all’intervento.
Solo a quel punto Keira ha capito che il suo sogno non poteva trasformarsi in realtà, perché il suo Dna restava femminile e che per questo si era tramutato in un incubo, appunto. Perciò settimana scorsa, come ha rivelato il Daily Mail, Keira è diventata un testimone chiave nel processo contro la Tavistock. La ragazza ha sbugiardato la procedura spiegando che i bambini non possono essere trattati come capaci di decidere della propria sessualità. Perciò fornire loro questo diritto è in realtà un modo per plagiarli. «Non credo - ha sottolineato - che bambini e giovani possano acconsentire all'uso di potenti farmaci ormonali sperimentali come ho fatto io».
Keira ha raccontato quanto il disagio da dover risolvere fosse interiore e che l’operazione chirurgica e gli ormoni non avrebbero mai potuto risolverlo. Anzi, hanno peggiorato le cose. Cresciuta con la madre divorziata dal padre, la bimba (come tante altre a questa età) amava fare il maschiaccio. Solo per questo motivo, a 14 anni, fu costretta a sentire sua mamma chiederle «se ero una lesbica, le ho detto di no. Mi ha chiesto se volevo diventare un ragazzo e ho detto di no». Si capisce quindi la confusione alimentata nella testa di una bimba già costretta a vivere senza una figura paterna di riferimento. Purtroppo infatti, la domanda della madre cominciò a lavorarle in testa e a farle venire dei dubbi, motivo per cui se anche «l’idea mi disgustava…mi rimase impressa nella mente e non andò via». Poi, presa in giro perché non voleva indossare la gonna a scuola, pensò che forse avrebbe risposto i suoi problemi proprio diventando un maschio.
«Non mi sentivo rispettata come donna…perciò pensai che la mia vita sarebbe cambiata in meglio se avessi cambiato sesso». Alla clinica dove fu mandata dal servizio sanitario pubblico per la salute mentale «non ci fu resistenza» al suo proposito. Cominciò quindi il processo, peccato che nessuno le spiegò i disagi terribili legati al bombardamento ormonale: «Avevo sintomi simili alla menopausa…avevo vampate di calore, non riuscivo a dormire, il mio desiderio sessuale scomparve. Mi dovettero dare delle tavolette di calcio perché le mie ossa si erano indebolite».
Qualche mese dopo le spuntarono i primi peli sul viso e subito fu inviata alla Gender identity Clinc di Londra per pianificare l’operazione chirurgica. Qui, sentiti due pareri, fu mandata all’ospedale di Brighton per una doppia mastectomia. La giovane spiega che ad essere contrario era solo suo padre che però, di fronte alla determinazione di tutti si era arreso. «Nessuno alla clinica mi mise a sedere in anticipo per dirmi: “Sei certa di volerlo?". Fu tutto molto veloce». Ma fu solo dopo l’operazione che la ragazza ebbe la sensazione di non essere nulla, né femmina né maschio, come chiusa in un limbo.
Tanto che al negozio di elettronica per cui lavorava si presentava come maschio usando i servizi maschili ma quando usciva la sera non sapeva mai «se ero una cosa oppure l’altra». E pur essendo diventata un maschio per l’anagrafe, «non volevo dire a mio padre che avevo fatto un errore. Cambiare idea fu imbarazzante». Anche davanti al ripensamento dovette però passare per la confusione: «Quando andai online nelle chat room, la lobby pro-transgender continuava a dire: "Oh, è normale avere dubbi”».
Perciò fu appena nel gennaio del 2019, dopo l’ultima dose di testosterone, che Keira decise di fermarsi. Anche se ormai era troppo tardi: «Non so se assomiglierò mai più ad una donna. Sento di essere stata una cavia della Tavistock e non credo che nessuno sappia cosa accadrà al mio corpo in futuro». Keira, che ora ha ricominciato a vestirsi da donna, non sa nemmeno se potrà mai avere figli. Soprattutto «mi preoccupo ogni volta che le donne pensano che io sia un uomo. Mi innervosisco. Ho i capelli corti ma li sto facendo crescere».
Mentre è decisa ad usare i prodotti per la cosmesi femminile che il padre le ha regalato, saputo che la sua bambina non voleva più fingere di essere ciò che non è. Anche se è molto più difficile tornare ad essere riconosciuti del sesso del proprio Dna, per cui ora «se commettessi un crimine, sarei messa in una prigione maschile».
Ma il numero di bambini violati da queste cliniche, che anziché aiutarli a riconciliarsi con la propria identità li usa per dare vita alle proprie chimere, cresce. Perciò è stata creata la Detransition Advocacy Network per supportare le vittime in rivolta (si parla di centinaia di giovani adulti che l’hanno contattata). Eppure, fa notare il Daily Mail, lo Stato non intende fermare il programma per cui più di 13.500 persone sarebbero in lista d’attesa per l’avvio del trattamento. Mentre i dati del governo parlano di un numero di minorenni femmine salito in sette anni da 40 a 1.806 e di ragazzini passato da 57 a 713. Il Tavistock e Portman NHS Foundation Trust ovviamente si difende, ma probabilmente il caso finirà davanti all’Alta corte di Londra, perché, conclude Keira, «non voglio che altri bambini soffrano come me».
Il numero di questi piccoli plagiati e ora sofferenti cresce, appunto, e non ci è estraneo (basti penare a quanto avviene all’ospedale Niguarda di Milano). Forse saranno proprio loro a fermare il business ideologico, ma a quale prezzo? In ogni caso è bastata la voce di un medico che non ha temuto di dire la verità per dare il coraggio di fare lo stesso a decine di altre persone.