Cina, gulag psichiatrico per chi si opponeva al lockdown. E da noi?
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Storia di Zhang Junjie, ora ventenne, finito in manicomio perché protestava contro il lockdown. Succedeva in Cina, ma questa idea di considerare pazzi i "negazionisti" non ci è estranea.
Un’inchiesta della BBC sul sistema psichiatrico-carcerario in Cina, svela la storia dello studente Zhang Junjie, ora ventenne, finito in manicomio perché protestava di fronte all’università (di una città non rivelata) contro le regole del lockdown. Era il 2022 e, mentre le città occidentali erano già tornate a vivere, in Cina tutte le maggiori città praticavano ancora politiche di chiusura totali. Bastava una sola diagnosi positiva per isolare interi quartieri, con milioni di persone che non potevano uscire di casa. Il 2022 è stato anche l’anno delle proteste, sempre più diffuse, per la fine del regime pandemico, finché Xi Jinping non ha deciso di fare marcia indietro.
La storia di Zhang è un esempio orribile sul funzionamento di un regime totalitario moderno. Durante la manifestazione anti-lockdown, è stato subito identificato da un suo professore. Il docente ha contattato il padre, che lo ha riaccompagnato a casa. È stato il padre a denunciarlo alla polizia. Secondo lo studente, il padre ha dovuto agire così perché è un funzionario pubblico, impiegato nell’amministrazione locale.
Così, nel giorno in cui compiva 18 anni, come regalo di compleanno della maggior età, due agenti si sono presentati in casa di Zhang Junjie e lo hanno prelevato, per portarlo in quello che (a detta loro) avrebbe dovuto essere un centro per i test Covid. Invece lo hanno internato in un ospedale psichiatrico, contro la sua volontà. Junjie riferisce alla BBC di essere stato legato a un letto d’ospedale e picchiato per ingerire medicine. «I medici mi dissero che avevo una malattia mentale molto grave... Poi mi legarono a un letto. Le infermiere e i medici mi hanno ripetuto più volte che, a causa delle mie opinioni sul partito e sul governo, dovevo essere malato di mente. Era terrificante».
Il ricovero coatto è durato 12 giorni, ma era solo un inizio. La polizia, infatti, ha continuato a seguire lo studente, per verificare che assumesse le medicine prescritte, anche in casa sua. Si trattava di una cura farmacologica molto pesante, per la schizofrenia. Poi, con un altro pretesto (aver violato il regolamento che vietava i fuochi d’artificio nel capodanno cinese), la polizia lo ha arrestato di nuovo e nuovamente ricoverato in ospedale psichiatrico, stavolta per due mesi.
Per evitare di finire di nuovo arrestato, Zhang Junjie è fuggito dalla Cina. Ora vive da esule in Nuova Zelanda, dove è stato intervistato.
Non è un caso unico. La televisione pubblica britannica, nella sua inchiesta, ha individuato altri 59 cittadini cinesi che hanno subito la stessa sorte: critici delle decisioni dello Stato sono stati ricoverati per malattie mentali presunte. Eppure la Cina ha adottato, almeno formalmente, leggi simili a quelle occidentali sui ricoveri per le malattie mentali. Dal 2013, la Legge per la Salute Mentale stabilisce che i pazienti debbano sempre esprimere il loro consenso. Il ricovero coatto è ammesso solo se costituiscono un pericolo immediato per se stessi o gli altri, un po’ come il Tso in Italia.
Ma la legge formale è una cosa, il comportamento delle autorità tutto l’opposto. Contattati dalla BBC, due dottori, di cui uno lavora nell’ospedale psichiatrico in cui era stato ricoverato lo studente, hanno confermato che è ancora diffusa la pratica comunista del gulag psichiatrico come forma di correzione degli errori politici. «“Il reparto psichiatrico ha un tipo di ricovero chiamato 'problematico'”, ci ha detto un medico. Un altro medico, dell'ospedale in cui Junjie era detenuto, sembra confermare la sua storia secondo cui la polizia continua a sorvegliare i pazienti una volta dimessi. “La polizia ti controlla a casa per assicurarsi che tu prenda le medicine. Se non le prendi, potresti infrangere di nuovo la legge”, hanno detto».
Fra il 2013 (anno in cui sono state introdotte le nuove norme) e il 2017, sono stati ricoverati almeno 200 pazienti per motivi politici, secondo giornalisti indipendenti cinesi che documentano gli abusi psichiatrici.
L’orrore del gulag psichiatrico è un caso estremo, tipico dei regimi totalitari. Ma siamo sicuri che “qui non può succedere”? Proprio durante l’emergenza pandemica, quando sono stati imposti i primi lockdown, era merce comune considerare malati di mente i “negazionisti”. Nelle riviste scientifiche, non solo nel dibattito politico, il negazionista era trattato come un malato di mente. Nella Rivista di Psichiatria, per esempio, leggiamo nel sommario di un articolo del 2022: «L’articolo è una riflessione sul fenomeno psichico della negazione della realtà della pandemia di Covid-19, dei dati della ricerca scientifica su di essa e delle finalità terapeutiche del vaccino e delle politiche sanitarie nazionali e internazionali, così come questo emerge nell’ambito dei cosiddetti movimenti no-vax». Come si vede, il termine “negazionista” non è riservato solo a quei pochi che negavano l’esistenza del virus, ma anche a chi si opponeva alle politiche anti-pandemiche del governo. E questo è solo uno dei tantissimi esempi.
Per fortuna il sistema delle garanzie dei diritti non ha ceduto fino al punto di ricoverare in modo coatto un “negazionista”. Ma occorre vigilare, soprattutto considerando che la deriva alla psichiatrizzazione della giustizia è sempre dietro l’angolo. Basti vedere che i nuovi crimini di odio sono tutti chiamati con nomi di fobie, come omofobia, transfobia, islamofobia…