ALIMENTAZIONE
Cibo, i luoghi comuni fanno male alla salute
Prodotti italiani e biologici: questo sarebbe l'optimum per la sicurezza alimentare secondo la propaganda. Ma le cose non stanno così.
Attualità
27_06_2011
Un luogo comune molto radicato nel nostro Paese è quello per cui l'origine geografica è l'elemento chiave per giudicare la qualità di un prodotto. In nome di tale luogo comune il cibo italiano sarebbe il migliore del mondo e la preoccupazione maggiore del consumatore dovrebbe essere quella di tutelare la propria salute verificando da dove proviene un determinato prodotto alimentare e rifiutando a priori tutti i prodotti che italiani nono sono.
Probabilmente è in nome di un preconcetto simile che i tedeschi, quando sono incominciate ad emergere le notizie sul batterio killer, il patotipo di Escherichia coli produttore di mortali tossine, con una punta di nordico razzismo hanno subito additato la Spagna e i suoi cetrioli come responsabili. Per inciso bene ha fatto il premier spagnolo Zapatero a pretendere i danni per una tale gratuita attribuzione di responsabilità.
Analogamente in Italia abbiamo benemerite organizzazioni agricole (peraltro citatissime dai media) che da decenni si occupano ad ogni piè sospinto di ricordarci che i prodotti di origine italiana sono i migliori del mondo e che i prodotti d’importazione sono da rifiutare a priori.
Per inciso colpisce che questo atteggiamento di chiusura continui a persistere in un’Europa unita in cui ci si aspetterebbe quantomeno che gli agricoltori dei diversi Paesi dell’Unione avessero un minimo di fair play. Infatti il mondo globalizzato sarà sempre più un mondo in cui i localismi legati a singole nazioni tenderanno a scomparire, per cui un acquirente asiatico o americano vedrà l’area di produzione euro-mediterranea come un tutt’uno senza manco più domandarsi dove si trova l’Italia, la Danimarca o la Tunisia. Ma aldilà di queste considerazioni di scenario che indicano in modo lampante il livello di miopia delle organizzazioni agricole italiane, dobbiamo comunque domandarci quanto vi sia di realistico in questo neo-protezionismo fondato sulle denominazioni d'origine.
In realtà la questione è quanto meno mal posta e ben farebbero le nostre autorità sanitarie a mettere in chiaro questo aspetto. Infatti ogni prodotto alimentare presenta per sua natura dei rischi. Quanti di noi ricordano lo scandalo del metanolo che tanti morti fece e che riguardava il vino italiano, non quello cinese? Un tale scandalo non si è ripetuto perché il sistema di controlli è stato efficace e non perché il vino italiano sia il migliore del mondo o perché tutti i produttori italiani siano oggi dei gentiluomini.
Quello che dunque dobbiamo pretendere come consumatori è che vengano attuati controlli stringenti onde evitare che prodotti tossici entrino nella catena di distribuzione. E scrivo questo a fronte di un sistema di controlli, quello europeo, che già oggi fra i migliori del mondo.
In altri termini qualunque prodotto agro-alimentare, sia esso di origine italiana, argentina, cinese o neo-zelandese, non può essere demonizzato sic et simpliciter. Occorre valutarne con mezzi tecnologicamente avanzati la salubrità e la qualità alimentare.
Un ulteriore luogo comune su cui richiamare l'attenzione è quello secondo cui i prodotti biologici sarebbero più sicuri di quelli prodotti dall'agricoltura tradizionale (quella per intenderci che fa uso di concimi chimici e di fitofarmaci di sintesi, i famigerati “pesticidi”).
Anche in questo caso vale la pena di rammentare che i germogli di leguminose che hanno mandato a morte una quarantina di persone in Germania intossicandone diverse migliaia provenivano da una filiera biologica. Ma come interpretare tutto ciò? Forse come indice del fatto che dobbiamo demonizzare il biologico dichiarandolo a priori insalubre? Nemmeno per sogno. Dobbiamo però pretendere che abbia una buona volta fine quella campagna che va avanti da anni su tutti i mezzi di informazione e che accredita i prodotti biologici di una maggiore salubrità rispetto ai prodotti di agricoltura convenzionale.
Fare agricoltura significa, oggi come ieri, produrre cibo di buona qualità e a prezzi contenuti. Se questo è ottenibile con il sistema "biologico" ben venga. Altrimenti si faccia uso dei sistemi tecnogicamente più adeguati ad ottenere lo scopo.
In proposito giova ricordare una malattia assi diffusa nel Medioevo in Europa e che mandava a morte migliaia di europei. Si chiamava ergotismo (da ergot, segale) ed era l'effetto delle tossine prodotte da un fungo parassita dei cereali, la Claviceps purpurea o segale cornuta.
Questo fungo è stato sconfitto grazie ai trattamenti fungicidi eseguiti sul seme. Vogliamo togliere questi trattamenti perché non sono naturali? Prima o poi ci ritroveremo le intossicazioni da Claviceps.
Oggi in pianura padana il mais è attaccato da un lepidottero parassita (la piralide del mais). Le larve di questa farfallina scavano gallerie nella pianta e nella "pannocchia" di mais introducendo i propaguli di funghi produttori di sostanze tossiche e cancerogene che si chiamano fumonisine e aflatossine. La tecnologia ha messo da anni a punto un mais geneticamente modificato (il mais BT) che è immune da piralide, essendo tossico per l’insetto, ma non per l’uomo. Tale mais, regolarmente utilizzato e con ottimi risultati negli Usa e in Sudamerica non può oggi essere commercializzato e men che meno coltivato in Europa perché è “geneticamente modificato” e dunque contrario al paradigma per cui "solo ciò che è naturale è buono”. In altri termini dobbiamo sentirci onorati di ingurgitare un po’ di sostanze cancerogene e, in caso di tumore potremo sempre consolarci dicendoci che la causa è del tutto naturale e dunque “buona”.
In sintesi dunque il mondo è pieno di veleni terribili e perfettamente naturali, per cui razionalità vorrebbe che la si facesse una buona volta finita con la demagogia per cui “tutto ciò che è naturale è buono e tutto ciò che è artificiale è cattivo”. Ma dove sta di casa la razionalità nel nostro vecchio continente?