Chesterton: l'idolatria è idiozia
Nel mese di agosto sospendiamo le video-lezioni di catechismo, ma proponiamo alcune letture che approfondiscono alcuni dei temi già trattati in questi mesi. Dopo il cardinale Newman sul rapporto fede-mondo, Josef Pieper su otium e culto, e l'allora cardinale Joseph Ratzinger sul significato del culto nella vita cristiana, oggi concludiamo con G.K. Chesterton sull'idolatria.
Un ironico e sferzante Chesterton mette in luce la logica ridicola dell’idolatria moderna, che si nasconde dietro le seriose costruzioni degli intellettuali. Si tratta della traduzione di un testo pubblicato su Illustrated London News il 14 aprile 1934, tradotto per la prima volta in italiano da Andrea Colombo nel n. 233 (novembre 2018) del mensile Luoghi dell’infinito.
Venerare gli idoli è contro tutto ciò in cui credo, ma penso che una cultura sbagli se non riesce a volte a giocare con loro, quasi fossero delle bambole. E nel campo della cultura, a prescindere dalle convinzioni alla moda, dovremo ben presto affrontare un nuovo caso di idolatria. Mi riferisco a quella malvagia degli intellettuali.
C'è una cultura che gioca con le immagini come fossero bambole. Un popolo può giocare con gli idoli altrui, ma non con i propri. Molte persone devote arrivano fino al punto di creare false divinità per religioni lontane e straniere. La maggior parte di noi si limita a un sorriso appena accennato e amichevole quando vede un idolo verde, nero o giallo con molte braccia che formano una ruota e troppe teste. E questo tipo di presa in giro, nella forma più gentile come in quella più rude, ha molto a che fare con la storia delle controversie religiose.
La Bibbia stessa, per esempio, non si limita a denunciare gli idoli, ma li ridicolizza. I grandi profeti dell'Antico Testamento sono particolarmente lucidi e ironici quando si tratta di mostrare l'intrinseca illogicità dell'idolatria. E tutti, moderati o estremisti, dai profeti ebrei agli iconoclasti greci, dai califfi islamici ai puritani di Cromwell, si sono sempre riferiti, nel bene e nel male, alla definizione scherzosa dell'Antico Testamento: l'idolatria è una forma di idiozia.
Perché l'idolatria è sbagliata? E soprattutto, perché è divertente? I profeti ebrei affrontarono la questione con quella chiarezza e logicità propria dei Greci. È divertente non solo perché irrazionale, ma anche perché rappresenta un capovolgimento. Fu detto, in quei tempi antichi, in modo incontrovertibile: «Hanno adorato l'opera delle loro mani» (Ger 1,16).
Chiunque rifletta sull'argomento si rende conto che non si tratta di pregiudizi di missionari, ma di obiezioni ragionevoli da filosofi. L'adoratore di feticci può essere il selvaggio più gradevole che ci sia, ma la sua forma di venerazione è irrazionale e comica. Prende un mucchietto di argilla e inizia a plasmarlo in modo da creare un essere per lui ideale con orecchie enormi e un naso lunghissimo, lo decora con corna e zampe, a seconda dei suoi gusti o di quelli più rinomati della sua tribù. E poi, quando ha completato l'opera, invece di ringraziare Dio che l’ha creato, adora come un Dio ciò che ha creato lui.
Nel momento in cui il capolavoro è compiuto, si capovolge misticamente la relazione fra il creatore e la sua creazione. L'ultima cosa creata al mondo diventa la prima e più antica e, a volte, si trasforma vagamente nel creatore dell'universo, nel creatore del suo stesso Creatore. Ecco la vera idolatria, irrazionale e superstiziosa, che agisce sotto il potere di un'illusione. È grottesca, perché capovolge la realtà. È come se una madre felice nell'avere un bambino lo accogliesse fra le sue braccia come suo padre.
Ora, lo scherzo più divertente è che questo è proprio ciò che i moderni filosofi più avanzati stanno facendo adesso. Ciò che va di più di moda fra gli intellettuali in voga in questo momento è propria questa forma primitiva, irrazionale, cieca e brutale di idolatria. Sono loro, i pensatori moderni, a dirci che il posto di Dio deve essere preso dall'ideale più alto forgiato dalla nostra immaginazione.
È il professor Julian Huxley[1] colui che predica costantemente che la religione non deve essere abbandonata, anche se la divinità, che non è soprannaturale, deve essere in ultima analisi scoperta nei meandri della nostra mente. [...] Sono il signor Bernard Shaw[2] e i sostenitori dell'evoluzione creativa, che ammettono, in pratica, di poter venerare solo ciò che loro creano. In ogni caso, l'evoluzione creativa sembra lasciare spazio più all'evoluzione che non alla creazione... per non parlare di un Creatore. Tutte le chiacchiere sia dei moralisti che degli evoluzionisti si riducono al fatto che l'unica cosa necessaria alla religione è avere qualcosa da venerare; e non c'è nulla di più facile da venerare di ciò che abbiamo inventato noi stessi.
Vi sono poeti bolscevichi che si sono lasciati andare al più stravagante dei sogni a occhi aperti: hanno immaginato una mitologia materialista in cui le macchine appaiono come divinità che governano e preservano l’umanità. In Occidente siamo più civilizzati e ci limitiamo a venerare i nostri ideali, cioè le nostre invenzioni, che a volte non riusciamo neanche a inventare. Ma l'intera faccenda si risolve nella convinzione che la vera religione va cercata nell’immaginazione umana. Su questo ho solo una cosa da dire, che fu già detta molto tempo fa: hanno adorato l'opera delle loro mani… Un detto il cui suono giunge fino a me aspro e secco, dal deserto, dalla vulcanica risata dei profeti.
Mi sto solo occupando del semplice punto di vista logico, che era il motivo stesso di quella profetica risata. Non voglio certamente contrappormi a chi vuole distruggere il sentimento religioso. Mi sto solo soffermando su chi pensa che il sentimento religioso vada preservato, anche se tre quarti degli altri sentimenti che lo hanno reso possibile sono stati distrutti.
Tutte le persone che ho citato sono troppo sincere e intelligenti per negare che, se la questione fosse posta in termini storici, la religione si è affermata esprimendo gratitudine per una forza eterna, pregando un potere che ci interpella, richiamandosi a una giustizia che consideriamo perfetta e illuminata, proprio perché supera le potenzialità delle nostre piccole e divertenti menti. Da queste piccole e divertenti menti possono sorgere molte cosette buffe, tra cui i feticci africani e le conferenze sull'etica, per cui provo una certa simpatia: da qui possono nascere anche ideali veramente sublimi. Ma riflettere sui propri pensieri, per quanto sublimi, non è ciò che gli esseri umani, anche se idolatri o pagani, considerano la consolazione della religione.
Su un piano comparato di tipi tribali, io sono del tutto a favore dell'adoratore di feticci, in quanto possiede molti barlumi di sentimenti positivi. Per esempio, ha la vera e nobile umiltà di fare il suo essere ideale il più possibile diverso da se stesso. Mentre il professore di sociologia o di etica spesso lo crea identico a se stesso. Alcune debolezze passeggere, come il cannibalismo o il tagliare le teste, di solito imposte da una routine di rispettabilità, possono gettare su di lui una luce sinistra. Ma in fondo agisce secondo la sua visione e preferisco delegare a un altro giudice (che non è né un feticcio né il futuro) la sottile e difficile questione se un cannibale bevitore di sangue sia peggio dell'usuraio sanguisuga, o se l'uomo più degradato sia un selvaggio tagliatore di teste o un manager cacciatore di teste. Ma, a prescindere dalla sua condizione morale, penso tuttavia che la sua posizione intellettuale sia minata da un capovolgimento illogico, che sorge dall’origine stessa del feticcio e della sua adorazione, anche se non è certo l'unico a cadere in questo scherzoso tranello.