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Pieper: non c'è festa senza divinità

Nel mese di agosto sospendiamo le video-lezioni di catechismo, ma proponiamo alcune letture che approfondiscono alcuni dei temi già trattati in questi mesi. Dopo quella del cardinale Newman sul rapporto fede-mondo, proponiamo un brano del filosofo Josef Pieper sul rapporto tra Otium e culto.

Catechismo 14_08_2022

J. Pieper, “Otium” e culto, Cantagalli 2010, pp. 77-80.

Otium, nella brillante riflessione di Josef Pieper, non è un mero riposo, né ancor meno un vizio. Esso è la dimensione propria dell’uomo in quanto egli supera il mero humanum e inizia a condividere “la vita degli dèi”. L’otium rompe il cerchio asfissiante dell’homo laborans, piegato ed assorbito dalla logica dell’utilità e del profitto; lo spezza e lo apre alla gratuità riposante ed elevante della contemplazione; lo libera dal giogo del Faraone. Ma ciò è possibile solo se l’uomo non abdica al culto: “Abbiate otium e riconoscete che io sono Dio” (Sal 45, 11).

Si può affermare che l’elemento centrale, il nucleo dell’otium è l’atteggiamento festivo, il far festa. […] Se dunque l’atteggiamento festivo è il nucleo dell’otium, questo riceverà la sua intima possibilità e legittimazione dalla stessa radice da cui ricevono esistenza e significato la festa e il riposo festivo. E questa radice è il culto.

Non c’è festa “senza divinità”, sia essa un carnevale o una festa di nozze. Non c’è festa che non sia nata dal culto, e che non conservi il suo carattere festivo perché continua a ricevere vita dal culto. Questo, intendiamoci, non perché debba essere così, né perché si pretenda che sia così. La nostra vuole essere una constatazione: una festa che non sia nata dal culto, benché la coscienza di questa dipendenza si sia tanto attenuata negli uomini, una tale festa, in realtà, non è possibile trovarla. Nella Rivoluzione Francese si è bensì tentato, ripetutamente, d’istituire giorni festivi civili, senza legame alcuno col culto, oppure addirittura contrari al culto, “Festa di Bruto” o “Festa del lavoro”. Ma tali tentativi stanno proprio a dimostrare, con la forzatura e con l’indirizzo polemico del loro carattere festivo, quale importanza abbia il culto per la festa. Diversamente, sarebbe quasi impossibile spiegare come mai la vera festività riesce soltanto là dove il rapporto con il culto è ancora vivo […].

La stessa cosa vale per l’otium: la sua ultima ed intima possibilità e legittimità ha principio e radice nel riposo festivo cultuale. Questa non è una mera costruzione concettuale astratta, ma è un dato della storia delle religioni […]

Il culto sta al tempo come il tempo allo spazio. Tempio significa (lo si desume anche dall’antico significato della parola): uno spazio, una porzione delimitata di suolo, definita con siepi, cinte, termini, e separata dal resto dei campi e dei terreni coltivati a scopo economico. E questo recinto sacro, isolato, viene assegnato in proprietà agli dèi; non viene più né abitato, né coltivato; viene separato, sottratto all’uso profano ed economico, utilitaristico. Analogamente, per mezzo del culto e dal culto, viene prescelto un determinato lasso di tempo; separato dal tempo quotidiano di lavoro, questo spazio di tempo determinato non viene “utilizzato”; proprio come l’area destinata al tempio, al luogo del sacrificio, viene sottratta all’utilizzazione. Ogni sette giorni ricorre questo lasso di tempo. È lo “spazio di tempo festivo”.

Uno spazio “inutilizzato” per principio, non può esistere nel mondo totalitario del lavoro, né può esistervi un’area di terra “improduttiva”, né uno spazio di tempo non impegnato. Perciò non c’è neppure un luogo di culto, né una festa: nel mondo del “lavoratore” infatti vale esclusivamente il principio dell’utilizzazione razionale. La “festa” nell’ambito del mondo totalitario del lavoro è invece sosta di lavoro (e quindi sempre ad esso subordinata), oppure è “Festa del lavoro”, sproporzionata celebrazione del principio stesso del lavoro (e quindi sempre appartenente al mondo della produzione). […]

Il mondo del “lavoratore” è irrimediabilmente un mondo povero e gretto, anche quando sguazza nella sovrabbondanza di beni materiali. In forza del principio economico, su cui è basato, non può dare alcuna vera ricchezza o prosperità. Ove rimane qualcosa di superfluo, anche quello che sopravanza viene riassorbito, ripreso dal principio dell’utilità razionale. “Il lavoro non fa ricchi, ma gobbi”, dice un vecchio adagio russo.

Al contrario, è connaturale al culto il produrre, anche nell’estrema indigenza, una porzione sovrabbondante, ricca, perché al centro del culto c’è il sacrificio. Qual è infatti il significato vero del sacrificio? È una spontanea, gratuita offerta (certamente l’”utile” non entra nel concetto di sacrificio, anzi sacrificio e utilità stanno tra loro in rapporto di antitesi estrema). Così nella celebrazione liturgica, unicamente in essa, ha origine una riserva di energie che il mondo del lavoro non potrà mai consumare; si forma un’oasi di quiete, ove non giunge il vortice logorante del dinamismo, una zona di profusione, di prodigalità svincolata da ogni funzionalismo, di vera ricchezza: il lasso di tempo festivo.

Ed è unicamente in questo tratto di tempo festivo che l’otium può realizzarsi e raggiungere il suo pieno sviluppo.

Divelto dall’orbita del culto, allontanato dal suo raggio d’azione, l’otium (come la festa) rimane paralizzato.  Separato dal culto, l’otium si fa ozioso e il lavoro si fa inumano.

In tal modo da un lato spuntano le “figlie” degeneri dell’otium, prossime tanto all’agitazione attivistica come all’accidia (accidia nell’antica accezione metafisico-teologica). Guadagneranno terreno la neghittosità e la noia; noia che ha un rapporto immediato con l’agitazione attivistica; si annoia chi ha perduto la capacità spirituale di otium. Anche la “sorella” dell’irrequietezza, la disperazione, leva il volto funereo […].

Dall’altro lato, privato del sostegno di una festività autentica e di un otium reale, il lavoro si fa inumano. Allora può essere solo sopportato stoltamente oppure “eroicamente”: improba, disperata fatica, simile a quella di Sisifo, il vero archetipo mitico del “lavoratore” senza sosta, del “lavoratore” incatenato alla sua funzione spiritualmente sterile.

La naturale dissociazione, anzi l’ostilità nei confronti del culto, da parte dello spirito solipsistico del lavoro giunge al massimo della sua aberrazione quando pone la giustificazione del lavoro nel culto: “Lavorare vuol dire pregare” dice Carlyle; nei suoi scritti troviamo inoltre questa frase: “Preso nel suo fondamento ogni vero lavoro è religione, ed ogni forma di religione, che non sia lavoro, può essere abbandonata ai Bramini, agli Antinomiani, ai Dervisci nomadi, o dovunque essa sia”.

Nessuno vorrà affermare che questo modo di pensare sia semplicemente la patetica esposizione di una teoria superata del XIX secolo, e non piuttosto la voce del mondo totalitario del lavoro, la voce di quello che sta per diventare il nostro mondo.