Che cosa significa dire «Io ti assolvo»
Bisogna sempre ricordare che i sacramenti non sono incontri interiori privati del fedele con Dio, ma espressioni visibili della fede della Chiesa. Per questo la Chiesa ha sempre richiesto che i fedeli non si trovassero in contraddizione con la forma di vita cristiana.
Pubblichiamo la traduzione di un articolo del cardinale Gerhard Müller pubblicato su First Things il 15 dicembre 2017.
Molti oggi stanno proponendo che l’assoluzione sacramentale possa essere concessa a quei penitenti che, in ragione di circostanze attenuanti, possono ritenere di essere esenti davanti a Dio di colpevolezza soggettiva, nonostante il fatto di continuare a vivere in un oggettivo stato di peccato grave. La distinzione tra uno stato oggettivo di peccato e la colpevolezza soggettiva è generalmente riconosciuta dalla tradizione teologica cattolica. Ad essere più dibattuto è l’applicazione di questo principio nell’ordine sacramentale. È possibile usare la probabile assenza di colpevolezza soggettiva come criterio per dare l’assoluzione? Ciò non significherebbe trasformare i sacramenti in realtà soggettive, contrariamente alla loro vera natura di segni efficaci, visibili - e perciò oggettivi - della grazia?
Per rispondere a questa domanda, è necessario andare alle radici del sacramento della riconciliazione. Nel suo amore per noi, Dio prende così sul serio gli esseri umani da consegnare il suo Figlio unigenito alla morte più terribile e infamante sulla Croce (Gv. 3, 16), così che i nostri peccati possano essere perdonati e noi possiamo essere riconciliati con lui (2 Cor. 5, 19). Se questo è il prezzo della nostra salvezza, allora i vescovi e i sacerdoti non possono prendere alla leggera l’autorità che hanno ricevuto da Cristo stesso (Mt. 18, 18; Gv. 20, 22) di perdonare quei peccati che il penitente ha confessato e dei quali è pentito.
Perciò è con un’autorità che viene da Dio che gli Apostoli dicono la parola di riconciliazione ai fedeli (2Cor. 5, 20). Il sacramento della riconciliazione con Dio e con la Chiesa come corpo di Cristo richiede la confessione di tutti i peccati gravi nella loro interezza. Questa necessità proviene dalla preoccupazione per la salvezza eterna ed è più importante di un transitorio senso di tranquillità del cristiano, che un confessore potrebbe temere di disturbare. Per essere in grado di giudicare se perdonare o ritenere i peccati di qualcuno (Gv. 20, 23), il sacerdote deve sapere quali peccati gravi il penitente ha commesso. Questi comprendono sia i peccati pubblici che quelli segreti commessi nei pensieri, nelle parole, nelle opere e nelle omissioni, violando i comandamenti di Dio, che sono la rivelazione del suo santo e santificante disegno di amore per noi.
Non basta semplicemente dire in generale di essere peccatori. Questa potrebbe essere facilmente una scusa: si è soggetti all’umana debolezza come chiunque altro. I peccati vengono così relativizzati come degli onnipresenti difetti umani. In realtà, il cristiano battezzato non è comunque coinvolto nella dialettica di Lutero del simul iustus et peccator (nello stesso tempo giusto e peccatore). Attraverso il battesimo noi siamo stati veramente cambiati. Non siamo più schiavi del peccato ma siamo divenuti amici e figli di Dio. Siamo nello stato di grazia santificante. Non è una necessità che il peccato segua da quella debolezza che è rimasta (concupiscenza). Piuttosto, il peccato è l’esito di un atto consapevole e deliberato contro la santità di Dio e l’amore di Cristo che ha versato il suo sangue sulla Croce per il perdono dei peccati. È stato attraverso una libera accettazione della fede e della grazia che siamo diventati figli di Dio. Nello stesso modo, noi dobbiamo cooperare con la venuta del Regno in questo mondo, servendo l’adempimento della volontà di Dio sulla Terra come in cielo. Attraverso i peccati gravi, noi ci separiamo da Dio ed escludiamo noi stessi dall’eredità della vita eterna.
L’amore non rende superflui i comandamenti di Dio, ma è la loro più profonda forma di adempimento. I comandamenti non sono prescrizioni esterne, che promettono una ricompensa a quelli che li adempiono e minacciano un castigo verso quelli che non li osservano. Essi sono invece la rivelazione del disegno salvifico di Dio e ci indicano la strada del suo amore. Ogni peccato mortale è una contraddizione consapevole e deliberata della volontà di Dio. Questo è l’aspetto formale che trasforma un atto cattivo in un peccato mortale, il cui aspetto materiale è il contenuto dell’atto. Perciò l’apostolo Paolo può dire in maniera categorica: “né fornicatori, né idolatri, né adulteri… erediteranno il regno di Dio” (1 Cor. 6, 9-10).
Il Concilio di Trento (1551) insegna che i peccati mortali ci rendono nemici di Dio e ci consegnano all’eterna dannazione se non ci pentiamo, se non confessiamo i nostri peccati e, mediante le opere di riparazione, otteniamo l’assoluzione e recuperiamo lo stato di grazia santificante. Il penitente, pertanto, deve confessare al suo confessore tutti i peccati mortali pubblici e segreti dei quali è cosciente dopo un serio esame di coscienza (DH 1680). Egli deve inoltre indicare quelle circostanze atte a cambiare la natura del peccato (DH 1681). Ciò a cui ci riferiamo qui non sono le circostanze attenuanti che riducono la gravità della colpa e che ci rendono meritevoli di minore punizione. Si intendono piuttosto quelle circostanze che cambiano la specie dell’atto e richiedono così un diverso tipo di pena e di punizione, che deve essere determinata dal confessore il quale agisce come giudice. È importante sottolineare che la motivazione del confessore è la salvezza del penitente.
Infatti, il Concilio ha perfettamente ragione nel respingere la polemica protestante che considera la necessità della confessione completa dei peccati una specie di “tortura delle coscienze” nel confessionale (DH 1682). Che cosa accade se il penitente non è responsabile dei propri peccati, a causa di una mancanza di conoscenza o di responsabilità? La libertà di una persona potrebbe risultare compromessa a motivo dell’ignoranza. Dio solo è in grado di giudicare la colpevolezza soggettiva di una persona. Tutto quello che il confessore può fare è accompagnare con grande cura il penitente nel suo esame di coscienza. Ma neppure il penitente stesso può stabilire in che misura Dio lo ritenga responsabile del peccato. Fare così significherebbe semplicemente giustificare se stessi.
Anche se io non fossi a conoscenza di alcuna colpa, non potrei essere assolutamente certo della mia salvezza e mi dovrei sempre affidare con fiducia al giudizio della grazia di Dio. La Chiesa non può anticipare e neppure interferire nel giudizio di Dio. Gli Apostoli e perciò anche i vescovi e i sacerdoti sono solamente servi di Cristo e amministratori dei suoi sacramenti. Essi possono amministrare i sacramenti come mezzi della grazia solo in conformità con il modo in cui Cristo li ha istituiti e in conformità con il mandato che lui ha affidato alla Chiesa.
Dobbiamo prendere in considerazione anche la possibilità che l’ignoranza sia essa stessa colpevole, come quando serve come un modo di esonerare qualcuno dal cambiare il proprio modo di vivere. Ricordiamo l’insegnamento del Concilio di Sens, secondo il quale una persona può peccare anche se agisce con ignoranza (DH 730). Anche se un confessore è in grado di trovare ragioni che depongono in favore della diminuzione di responsabilità di un penitente, il confessore non dovrebbe dimenticare che proprio queste ragioni ostacolano la persona dal discernere la propria situazione davanti a Dio nel modo corretto. In ogni caso, dire “io ti assolvo” in questi casi equivarrebbe a confermare l’errore in cui la persona vive, un errore che è profondamente nocivo per la sua capacità di vivere in conformità al piano amorevole di Dio.
È fondamentale ricordare che i sacramenti non sono incontri interiori privati del fedele con Dio, ma espressioni visibili della fede della Chiesa. Questo è il motivo per cui la disciplina ecclesiastica che regola l’ammissione sacramenti, ha sempre richiesto che i fedeli non si trovassero in contraddizione con la forma di vita cristiana. San Tommaso afferma che ammettere ai sacramenti una persona che continua a vivere nel peccato significa introdurre “una falsità nei segni sacramentali” (S. Th. III q. 68, a. 4). Perciò una persona potrebbe essere senza colpevolezza davanti a Dio a causa di ignoranza invincibile, eppure non ancora in grado di ricevere l’assoluzione.
Le parole “io ti assolvo dai tuoi peccati” non ratificano la mancanza di responsabilità del penitente di fronte a Dio. Esse piuttosto esprimono ed effettuano la sua riconciliazione con Dio, la sua re-incorporazione con il corpo visibile di Cristo, che è la Chiesa. Allora, affinché queste parole siano efficaci, il penitente deve prendere la ferma risoluzione di vivere in accordo con quel modo di vivere che la Chiesa ci ha insegnato e che la Chiesa testimonia al mondo. Fare diversamente significherebbe “soggettivizzare” l’economia sacramentale della Chiesa, rendendola una funzione del nostro rapporto invisibile con Dio.
Un caso di natura completamente differente si presenta se, per ragioni esterne, sia impossibile chiarire canonicamente lo status di un’unione, come quando un uomo ha le prove che il proprio presunto matrimonio con una donna era invalido, sebbene per qualche ragione egli non sia in grado di addurre queste prove nel foro ecclesiastico. Questa caso è del tutto diverso da quello di una persona validamente sposata che richiede il sacramento della Penitenza senza voler abbandonare una relazione sessuale stabile con un altro, sia in situazione di concubinato che di “matrimonio” civile, che non è valido davanti a Dio e alla Chiesa. Mentre in quest’ultima situazione si ha una contraddizione con la pratica sacramentale della Chiesa (materia di legge divina), nel primo caso la discussione riguarda come determinare se il matrimonio sia nullo o meno (materia di legge ecclesiastica).
Dal punto di vista teologico, le cose sono molto chiare. Le parole di Cristo, l’insegnamento degli Apostoli e i dogmi della Chiesa costituiscono una chiara linea guida di ogni sforzo pastorale per sostenere i singoli cristiani nel loro pellegrinaggio verso Dio. Erano i vecchi farisei (il cui nome oggi viene fin troppo usato come parola denigratoria) che cercavano di mettere in difficoltà Gesù sull’indissolubilità del matrimonio. Da una parte, tutti vogliono mantenere l’indissolubilità matrimoniale come parte del progetto del Creatore sul matrimonio tra un uomo e una donna. Dall’altra parte, alcuni cercano di aggirare il comandamento di Cristo. La loro scusa è che oltre al “Cristo severo” legislatore del Nuovo Testamento, c’è anche il “Gesù misericordioso” del Vangelo, consapevole del fatto che l’ideale si trova calato nella concreta realtà umana vissuta, la quale è lacerata dal peccato di Adamo. Gesù non risponde come un fariseo, ma contro i farisei – ed anche contro l’obiezione degli Apostoli che pretendono di conoscere la prassi umana e la realtà meglio di Gesù stesso – che “chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio”, principio che egli applica anche alla donna che sposa un uomo che non è celibe o non è vedovo (Mc. 10, 11-12).
Secondo l’apostolo Paolo, se gli sposi si sono separati, essi devono sforzarsi di riconciliarsi. Se la riconciliazione non è possibile, essi devono rimanere da soli fino alla morte dello sposo o della sposa legittimi (1Cor. 7, 11, 39). E’ vero per chiunque che la ricezione sacramentale della Santa Comunione è fruttuosa solamente quando si è in stato di grazia santificante. Ma anche indipendentemente dalla questione del soggettivo stato di grazia di una persona – del quale, in ultimo, solo Dio è giudice – è necessario che quanti vivono in contraddizione oggettiva con i comandamenti di Dio e l’ordine sacramentale della Chiesa prendano la risoluzione di cambiare il proprio modo di vivere per poter essere riconciliati con Dio e con la Chiesa nel sacramento della Penitenza.
In molte situazioni complicate, di fronte alle ideologie ostili al matrimonio, ed in un contesto in cui la trasmissione della fede è stata troppo spesso superficiale, il prudente amministratore della grazia di Dio guiderà con accortezza i cristiani, che cercano seriamente una vita di fede, a considerare la loro situazione familiare alla luce del Vangelo di Cristo. Nei casi in cui vi siano gravi ragioni per non sciogliere la nuova unione e dove una dichiarazione di nullità della prima unione non possa essere ottenuta, l’obiettivo di questo cammino spesso difficoltoso e lungo è di vivere insieme come fratello e sorella e poter così accedere alla Santa Comunione.
Inoltre non dobbiamo dimenticare che la fede cattolica non riduce il mistero dell’Eucaristia alla ricezione della Santa Comunione. Ad essere essenziale è anzitutto e principalmente la partecipazione al Sacrificio Eucaristico. La preoccupazione primaria dei pastori della Chiesa dev’essere l’adempimento da parte dei fedeli del precetto domenicale. Dio non negherà certamente il suo amore a coloro che, nonostante ripetute cadute, chiedono umilmente la sua grazia, così da poter osservare i comandamenti. Non ultimo, tenendo in considerazione i nostri stessi peccati, dobbiamo rispettare ed aiutare amorevolmente nel nostro comune pellegrinaggio quei nostri fratelli e sorelle che avvertono di trovarsi in un dilemma quando si tratta della propria situazione familiare e realizzano che, nonostante la loro buona volontà, non sempre riescono a vivere conformemente ai comandamenti di Dio. E’ vero che i confessori sono anche giudici. Ma essi svolgono questo ruolo non a partire dall’orgoglio umano, così da condannare il peccatore. Il loro giudizio è piuttosto come la diagnosi di un medico saggio, che cerca di conoscere la natura della malattia e quindi versa olio e vino sulle ferite, come fece il buon Samaritano, restituendo le persone alla casa della Santa Madre Chiesa.
(Traduzione di Luisella Scrosati)