Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giovanni da Kety a cura di Ermes Dovico
IL CASO

C'è un vescovo in Cina (ma non a Roma)

Le dimissioni di monsignor Vincenzo Guo Xijin, vescovo legittimo già costretto dalla Santa Sede a lasciare il suo posto di titolare a un vescovo già scomunicato e legittimato grazie all'accordo tra Cina e Santa Sede, sono la dimostrazione chiara che l'accordo con la Cina per la nomina dei vescovi funziona a senso unico.

Editoriali 07_10_2020
Monsignor Vincenzo Guo Xijin

Le dimissioni clamorose del vescovo di Xiapu-Mindong, Vincenzo Guo Xijin, sono la dimostrazione che l’accordo fra Cina e Santa Sede sulla nomina dei vescovi non solo è un flop, ma sta gravemente danneggiando la Chiesa cinese, e non solo.

Riassumiamo sinteticamente la vicenda. Con l’Accordo Provvisorio siglato il 22 settembre 2018, ed entrato in vigore un mese dopo, la Santa Sede ha immediatamente riconosciuto sette vescovi scomunicati. Caratteristica comune a questi vescovi è che non hanno mai chiesto perdono alla Santa Sede né espresso il desiderio di piena comunione con Roma, differenziandosi radicalmente perciò da tutti quei vescovi che in passato avevano chiesto e ottenuto il riconoscimento dal Papa malgrado fossero stati nominati dal regime comunista.

Non solo, la Santa Sede ha provveduto a mettere i sette ex scomunicati a capo delle diocesi in cui risiedevano. In due di queste però c’era già un vescovo titolare, legittimo, ovvero nominato da Roma ma senza il consenso del governo cinese. A costoro la Santa Sede ha chiesto di farsi da parte, e uno dei due era proprio monsignor Vincenzo Guo Xijin, allora 60enne, vescovo di Xiapu-Minding, “retrocesso” così a vescovo ausiliare.

Ma i problemi per mons. Guo non sono finiti qui, perché ha accettato di farsi da parte ma non di svendere la sua fede al Partito comunista cinese. Così sono aumentate le pressioni, le ritorsioni e si è arrivati alla perdita della libertà. Ovviamente senza nessun intervento della Santa Sede a sua difesa.

Alla fine, domenica scorsa, durante l’omelia monsignor Guo ha annunciato di dimettersi da tutte le cariche pubbliche e di ritirarsi per una vita di preghiera. D’ora in poi celebrerà messa solo in forma privata e sarà disponibile solo per le confessioni. La lettera con cui annuncia le dimissioni, fatta leggere in tutte le chiese della diocesi, e pubblicata dall’agenzia AsiaNews, dà la misura delle pressioni a cui è stato sottoposto. Monsignor Guo si autodefinisce «incompetente», «senza talenti», «non al passo con l’epoca».

Commenta il direttore di AsiaNews, padre Bernardo Cervellera: «In perfetto stile confuciano, mons. Guo si umilia schernendo le sue poche qualità. Rimane il fatto che egli, un grande confessore della fede, che ha subito molte volte la prigionia, per amore all’unità della Chiesa lascia lo spazio a un vescovo ex scomunicato, da tutti conosciuto come ambizioso e assetato di potere. Mons. Zhan Silu, riconciliato con papa Francesco, non sembra aver compiuto alcun gesto di richiesta pubblica di perdono davanti alla sua comunità».

Lo stesso monsignor Guo, nella lettera, afferma che ha presentato le dimissioni già in agosto. Perciò il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, era ben cosciente di questo caso quando sabato scorso, intervenendo al Centro Pime di Milano a un convegno sulla Cina, ha potuto malgrado ciò, considerare positivo il bilancio di questi due anni, tale da aver richiesto al governo cinese di proseguire con l’Accordo.

Dobbiamo dunque dedurre che per la Santa Sede va bene così, i cattolici cinesi - e i vescovi - possono essere tranquillamente perseguitati perché tanto – come ha spiegato il cardinale Parolin a Milano – l’accordo con la Cina riguarda soltanto la nomina dei vescovi. E va bene consegnare i vescovi legittimi al regime comunista cinese: che giurino la dichiarazione di adesione alla Chiesa indipendente – come la Santa Sede ha suggerito con un documento dello scorso anno – o marciscano in prigione se proprio vogliono mantenere il punto.

L’atteggiamento della Segreteria di Stato vaticana è imbarazzante e vergognoso: è un insulto alle centinaia e migliaia di martiri cinesi che – seguendo la tradizione apostolica - nei secoli hanno versato il sangue per rimanere fedeli alla Chiesa cattolica. È una istigazione a bruciare l’incenso all’imperatore, l’esatto contrario di ciò a cui la Chiesa ha sempre educato e che i santi hanno sempre seguito.

Quello che è sottovalutato è l’impatto devastante che questo atteggiamento della Santa Sede ha per tutta la Chiesa, e non solo per i cattolici cinesi (che già basterebbe). Perché è chiaro che da Roma arriva un modello di asservimento al potere, di svendita della propria identità e libertà in cambio di uno spazio per vivere, di riduzione della fede a servizi religiosi. E come abbiamo visto durante il lockdown anche in Italia, ci sono pastori che hanno già imparato bene la lezione.