Caso Santanchè, l'ipotesi "exit strategy" gioverebbe a tutti
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Respinta la mozione di sfiducia per la ministra del Turismo rinviata a giudizio, accanto alla presunzione di innocenza resta l'imbarazzo della maggioranza, specie dopo le sue ultime sortite in aula. Non è da escludere che dietro le quinte si lavori a una via d'uscita dignitosa.

Due giorni fa la mozione di sfiducia alla Camera contro la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, presentata dalle opposizioni, è stata respinta con 206 no, 134 sì e un astenuto. La maggioranza numericamente ha dunque tenuto, ma serpeggiano crescenti malumori nel centrodestra nei confronti dell’atteggiamento battagliero della Santanchè, che rischia di mettere in difficoltà l’intero esecutivo.
La ministra – lo ricordiamo – il mese scorso è stata rinviata a giudizio dalla gup Anna Magelli per false comunicazioni sociali in merito al caso Visibilia, una delle società del gruppo da lei fondato e dal quale ha dismesso le cariche. Quello che si aprirà a Milano è il primo processo che la senatrice dovrà affrontare in qualità di imprenditrice. L'indagine era partita dopo la segnalazione di alcuni soci di minoranza che avevano denunciato irregolarità nella gestione della società. Secondo la Procura milanese ci sarebbe un “disegno criminoso” di chi, rivestendo allora ruoli apicali, avrebbe omesso "ogni attività di accertamento" sul bilancio della spa Visibilia Editore, quotata sul mercato gestito da Borsa Italiana, con il fine "di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto" e l'effetto finale di indurre in errore gli investitori e mettere a rischio la continuità della spa.
La diretta interessata continua a dichiararsi innocente e alla Camera, durante il suo intervento, ha parlato di vero e proprio “ergastolo mediatico”, riferendosi agli attacchi ricevuti da gran parte dell’informazione. In particolare La7 l’avrebbe presa di mira con trasmissioni dedicate perfino allo “scandalo” delle borsette denunciato da Francesca Pascale, ex compagna di Silvio Berlusconi.
Mai come nel caso Santanchè occorre distinguere i piani. La ministra fa bene a denunciare la gogna mediatica alla quale viene sottoposta da mesi, sulla base di accuse e sospetti che dovranno essere accertati in un processo. Fa altrettanto bene a ricordare che in moltissimi casi del passato i ministri che si sono dovuti dimettere perché rinviati a giudizio hanno poi ottenuto una piena assoluzione. La presunzione di innocenza, come ha ribadito anche il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, deve valere per tutti. Neppure dopo una condanna in primo grado è tecnicamente giusto, sul piano della civiltà giuridica, invocare le dimissioni di un politico.
Tuttavia, in questo come in altri casi o forse più che in altri casi, subentrano ragioni di opportunità. È stata la stessa ministra Santanchè a dichiarare che, se venisse rinviata a giudizio anche per truffa all’Inps sulla cassa Covid, potrebbe pensare seriamente alle dimissioni. Questa sua disponibilità è stata apprezzata dagli esponenti di Fratelli d’Italia e dallo stesso premier, che teme ripercussioni sul governo, anche in termini di reputazione e di consensi.
Colpisce in particolare la diversità di reazioni tra il caso Delmastro e il caso Santanchè. Subito dopo la condanna a otto mesi del sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro per rivelazioni di segreto d’ufficio, l’intero stato maggiore di Fratelli d’Italia e la stessa Giorgia Meloni hanno subito parlato di sentenza politica e hanno esortato il diretto interessato a non dimettersi. Nel caso Santanchè dominano i silenzi, resi ancora più imbarazzati e imbarazzanti dall’ultima sortita della ministra del Turismo, che in aula ha parlato di ricchezze e povertà, tacchi 12 e borsette, attirandosi le critiche feroci e spietate delle opposizioni ma anche le riserve dei suoi stessi alleati.
È ormai evidente che la ministra del Turismo è diventata un peso ingombrante per Meloni e sodali, che non vedono l’ora di liberarsene. Ecco perché la gente comune si chiede perché da Palazzo Chigi non arriva un diktat alla Santanchè affinchè faccia un passo indietro. I grillini ritengono che la Santanchè ricatti Meloni. Altri hanno letto le recenti frasi della ministra sul presidente del Senato Ignazio La Russa come avvertimenti in codice (“Ignazio è un amico, non mi abbandonerà…”). Potrebbe dunque essere che ai vertici del governo (e delle istituzioni) fa paura una Santanchè ferita e con istinti di vendetta? Oppure semplicemente si sta cercando una exit strategy dignitosa per tutti, che non comprometta la stabilità politica ma neppure risulti umiliante per la ministra?
Probabilmente è stato proprio il premier a far sapere alla ministra che dovrebbe certamente dimettersi in caso di altro rinvio a giudizio per la presunta truffa ai danni dell’Inps. Ma se questo secondo processo non dovesse aprirsi vorrebbe dire che si potrebbe andare avanti così fino alla fine della legislatura, cioè con una ministra impegnata anche a difendersi in tribunale da gravi accuse? Potrebbe essere. Dopo tutto, anche Matteo Salvini è rimasto ministro durante il processo Open Arms che lo vedeva imputato. Ciò non toglie che una uscita di scena morbida da parte di Santanchè potrebbe giovare a tutti.
C’è chi ipotizza che sia proprio questo l’obiettivo della ministra: strappare concessioni per il futuro, ad esempio un altro incarico di prestigio o la promessa di una candidatura importante come quella a governatrice della Regione Lombardia fra tre anni, visto che Fratelli d’Italia rivendica per sé quella poltrona. Ma sono tutte supposizioni. Per Santanchè sarebbe un vero guaio perdere il controllo del ministero del Turismo, settore strategico per lei e per molti suoi fedelissimi. Il braccio di ferro appare dunque destinato a proseguire. Una guerra di nervi dagli esiti imprevedibili.
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