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Caso Charlie, l'inutilità dell'utilitarismo

Tra i miracoli che possiamo attribuire al piccolo Charlie Gard c'è anche una presa di posizione a favore del suo trasferimento negli Usa da parte di due noti bioeticisti, Julian Savulescu e Peter Singer, noti per il loro estremismo eugenetico. Ma la loro posizione è frutto di una posizione utilitaristica che dimostra tutta la sua inconsistenza.

Vita e bioetica 23_07_2017
Peter Singer

Il piccolo Charlie Gard è responsabile di numerosi miracoli. Uno di questi è avvenuto due settimane fa. I media non ne hanno parlato molto e neppure i bioeticisti e i filosofi di professione si sono rivelati particolarmente attenti.

Il 6 luglio, in un breve comunicato online (clicca qui), due dei maggiori bioeticisti del mondo, Julian Savulescu e Peter Singer, hanno spiegato che Charlie Gard doveva essere portato negli Stati Uniti per il trattamento sperimentale voluto dai genitori. 

Per chi non conoscesse Savulescu e Singer: il primo è noto (tra l’altro) per alcuni argomenti a sostegno dell’eugenetica, il secondo difende addirittura l’infanticidio in alcune circostanze. Di certo, dunque, non si tratta di due rigidi cattolici conservatori, ma di due intellettuali che hanno attivamente combattuto battaglie in favore dell’aborto, dell’eutanasia, del suicidio assistito, della sperimentazione sugli embrioni – spesso da posizioni estreme. 

Se ci fermassimo soltanto alla vicenda di Charlie Gard, però, rischieremmo di concentrarci sul dito e di ignorare la luna. Savulescu e Singer propongono alcune considerazioni di stampo utilitaristico. Per gli utilitaristi, la bontà di un’azione o di una regola consiste unicamente nella massimizzazione della felicità e nella minimizzazione del dolore per il maggior numero di soggetti senzienti coinvolti. In parole povere, quando un utilitarista si chiede se debba o non debba fare qualcosa, egli comincia a calcolare quanta felicità e quanto dolore produrrà nei soggetti senzienti coinvolti. Se il calcolo sarà positivo (più felicità che dolore), dovrà compiere quell’azione o seguire quella regola. Se il calcolo sarà negativo (più dolore che felicità), dovrà evitare di compiere quell’azione o di seguire quella regola. Piccola nota a margine: tra i soggetti senzienti, Singer include spesso gli animali non-umani ed esclude gli embrioni e i feti umani. I primi, potendo provare felicità e dolore, sono soggetti senzienti che devono essere considerati nei nostri “calcoli etici” – e che godono dunque di alcuni diritti. I secondi no.

Ad ogni modo, Savulescu e Singer cominciano a “calcolare” le sofferenze di Charlie e degli altri soggetti coinvolti. Vi sono sei mesi di dolorosa respirazione artificiale per Charlie, più tre mesi (per i trattamenti sperimentali) di ulteriori ed eventuali dolori. D’altro canto, vi è una certa probabilità di guarigione (cioè di felicità) e, cinicamente, non vi sono danni per altri soggetti: Charlie, per essere curato, non richiederebbe fondi pubblici, di cui dovrebbero essere privati altri soggetti. In fin dei conti, sostengono Savulescu e Singer, a Charlie doveva essere concesso subito il trattamento sperimentale. Questo gli avrebbe almeno risparmiato i dolori di sei mesi di attesa. Concedere ora a Charlie quel trattamento potrebbe essere tardivo.

Ma ecco il fulmine a ciel sereno. Savulescu e Singer si chiedono in definitiva se tre mesi di dolori (durante il trattamento) valgano una bassissima probabilità di guarigione (diciamo 1 su 10.000, ben al di sotto di quella prospettata dallo specialista americano). 

Dopo tutti i loro calcoli, i due bioeticisti rispondono positivamente. E aggiungono: “this is not a religious or right to life argument, or an argument based on compassion. It’s a secular ethical argument about the extreme complexity of judging someone’s life to be not worth living, or judging the prospects of having a life worth living to be not worth taking”. Cioè: “questo non è un argomento religioso o fondato sul diritto alla vita, o sulla compassione. Si tratta di un argomento di etica secolare (cioè laica, ndr) riguardante l’estrema complessità nel giudicare se la vita di una persona non è degna di essere vissuta o nel giudicare se le prospettive di avere una vita degna di essere vissuta non devono essere percorse”. 

Queste affermazioni sono dirompenti per alcune ragioni. La prima delle quali è che rivelano l’inutilità dell’utilitarismo. 

Savulescu e Singer tentano dei calcoli etici nella complicata situazione di Charlie. Ma il punto è che è davvero difficile calcolare le buone e cattive conseguenze (cioè quelle che recheranno felicità e dolore) di un’azione come quella di concedere a Charlie il trattamento sperimentale – nella particolare situazione in cui Charlie si trova. 

In primo luogo, in effetti, stiamo ragionando in termini di probabilità. In secondo luogo, parliamo di conseguenze future e solo parzialmente prevedibili. Insomma, la felicità possibile e futura e il dolore possibile e futuro sono difficili da prevedere. Ed è dunque molto difficile valutare cosa bisogna fare in un caso difficile come quello di Charlie.

In un altro articolo (clicca qui), Savulescu e Singer suggeriscono dunque che si debba “err on the side of a chance of life” (‘sbagliare’ in favore di una chance di vita), perché “the alternative is certain death” (l’alternativa è una morte certa). 

Ma pressiamo Savulescu e Singer. La bioetica dovrebbe aiutarci a risolvere i casi più difficili, come quello di Charlie. In effetti, chi ha studiato etica e le forme del ragionamento etico dovrebbe avere una marcia in più nel risolvere i dilemmi posti in queste situazioni. E la bioetica ha ragione di esistere proprio nella misura in cui ci aiuta ad affrontare dei problemi apparentemente insolubili in cui intuizioni di valore molto forti entrano in conflitto (esempio: vita versus evitare la sofferenza). 

Se la bioetica utilitarista non è in grado di calcolare ciò che si deve e ciò che non si deve fare in questi casi difficili, a cosa serve? Qual è la sua ragion d’essere? Perché, in ultima istanza, un calcolo estremamente incerto sulla felicità e sul dolore dovrebbe determinare la vita o la morte di una persona? In due parole: quando il gioco si fa duro (cioè quando bisogna confrontarsi con casi molto difficili), i bioeticisti dovrebbero cominciare a giocare. Ma è proprio allora che i bioeticisti che accettano l’utilitarismo alzano le mani al cielo (qui con una certa onestà, nel caso di Savulescu e Singer) e si tirano indietro, invocando un certo principio di precauzione. Ma allora: a chi o a che cosa è utile, in bioetica, l’utilitarismo?