"Caritas in veritate", ciò che volentieri si dimentica
Un convegno in Vaticano ha celebrato i dieci anni dell'enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate. Un'occasione per ricordare alcuni contributi fondamentali di questa enciclica che la Chiesa di oggi dimentica. A partire dal legame stretto tra Caritas in veritate e Humanae Vitae.
Dieci anni fa Benedetto XVI pubblicava l’enciclica Caritas in veritate, che arricchiva la tradizione delle encicliche sociali, commemorando la Populorum progressio di Paolo VI. Il 7 luglio 2009 l’enciclica veniva presentata in Sala stampa vaticana dal cardinale Martino, dal cardinale Cordes, dall’arcivescovo Crepaldi e dal prof. Zamagni.
Ieri un Convegno internazionale in Vaticano ha celebrato la ricorrenza e i professori Zamagni e Becchetti hanno evidenziato alcune caratteristiche dell’enciclica dal punto di vista soprattutto delle proposte economiche da loro sostenute e all’interno dell’attuale indirizzo della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, presieduta appunto da Zamagni. È giusto osservare che l’enciclica articola il concetto di imprenditore oltre la versione cosiddetta pubblica e quella cosiddetta privata, estendendolo anche alla società civile. È anche giusto ricordare il richiamo dell’enciclica all’”economia del dono”, oppure la sua segnalazione del pericolo derivante da nuove ideologie, come quella della tecnica. Ritengo tuttavia che non debbano essere trascurati importanti contributi di struttura che l’enciclica ha fornito all’impianto stesso della Dottrina sociale della Chiesa, affinché non rimangano segnalazioni dimenticate.
Uno di questi contributi è la connessione da essa stabilita tra la questione sociale e la Humanae vitae di Paolo VI. È bene segnalarlo quando l’eredità di questa enciclica sull’amore umano sembra in pericolo. Benedetto XVI la considerava una enciclica “sociale” in quanto si occupava dell’origine stessa della società, vale a dire l’amore complementare e fecondo tra la sposa e lo sposo.
A partire da questo collegamento con l’enciclica paolina – oggi piuttosto controcorrente – il tema della vita, così centrale per l’intera questione sociale, emerge con grande intensità in tutta la Caritas in veritate. Il paragrafo 28 mette in relazione l’accoglienza della vita e lo sviluppo, invitando ad esaminare il fenomeno per cui è la denatalità, e non la natalità, a produrre povertà. Tesi su cui non tutti i membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali oggi sono d’accordo. Benedetto XVI notava che anche le Ong internazionali spesso operano contro la vita e gli stessi aiuti allo sviluppo vengono condizionati a politiche di controllo delle nascite. Se l’accoglienza, diceva l’enciclica, non c’è nel momento iniziale della nascita di una nuova vita umana, come potrà esserci in seguito nei vari ambiti della società?
Il tema del diritto alla vita veniva collegato da Benedetto XVI nell’ambito dell’ecologia umana, in modo che mai si dovrebbe parlare di ecologia ambientale senza anche parlare di ecologia umana. La responsabilità della Chiesa verso il creato – non la Madre Terra, espressione che l’enciclica non ha mai adoperato – riguarda prima di tutto l’uomo, per salvarlo dalla distruzione di se stesso. Non si può collaborare con realtà impegnate per la protezione della biodiversità se queste stesse sono contemporaneamente impegnate per la sterilizzazione delle donne dei Paesi poveri. Oggi, dieci anni dopo l’enciclica, questi concetti strategici non sono sempre chiari.
Il contributo più significativo dell’enciclica sta però nel suo titolo: Caritas in veritate, che esprime che la carità senza la verità è vuota e cieca, quindi non è nemmeno carità. L’arcivescovo Crepaldi, in una sua Presentazione dell’enciclica pubblicata proprio dalle edizioni Cantagalli in quell’anno 2009, faceva dipendere il titolo dall’idea che “il ricevere precede il fare”. Era un invito a non scivolare nella prassi senza la dottrina, come spesso si è fatto e si fa. Per questo l’enciclica si diffonde sul fatto che i diritti sono preceduti dai doveri (n. 43), quindi dal diritto e dal giusto, e richiama molte volte la legge morale naturale (nn. 59, 68, 75), ribadendo implicitamente che essa resta uno dei fondamenti della Dottrina sociale della Chiesa, anche se oggi molti lo negano, ed infatti l’espressione è quasi sparita dall’uso ecclesiale. Anche questa è una interessante provocazione per l’oggi, quando si intende cambiare la teologia morale cattolica in un mutamento che non può non riguardare anche questo punto.
Se il ricevere precede il fare significa che c’è un ordine sociale creato e finalistico che precede e dà senso all’agire sociale e che questo ordine non si regge senza Dio. Nelle sue ultime righe l’enciclica dice che “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia”. Perciò essa chiede un posto per Dio nel mondo e, così facendo, rilancia il tema della presenza di Dio nella sfera pubblica e il “diritto di cittadinanza” della religione cattolica. È vero che la Caritas in veritate dice che la questione sociale è diventata ormai la questione antropologica (n. 75) ma da queste premesse si può anche dire che è diventata la questione teologica, come del resto è forse sempre stata, solo che un tempo lo si sapeva e lo si diceva di più.
Infine, un’ultima notazione degna di ricordo è l’affermazione di una continuità tra la Dottrina sociale preconciliare e quella postconciliare (n. 12). Una osservazione e un indirizzo di studio e di prassi dissonanti con la mentalità ecclesiale di oggi, ma autorevoli e, soprattutto, teologicamente inoppugnabili. Da non dimenticare.