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INTERVISTA

Cari italiani, che grande errore la guerra in Libia

Mohamed Bazoum è il ministro degli Esteri del Niger, vice presidente del partito al governo da oltre tre anni. È noto ai media per non avere peli sulla lingua, come si conferma anche in questa intervista rilasciata pochi giorni fa a Niamey.

Esteri 09_07_2014
Mohamed Bazoum

Mohamed Bazoum è il ministro degli Esteri del Niger, dall’aprile 2011 vice presidente del Partito per la democrazia e il Socialismo (PNDS-Tarayya) al governo da oltre tre anni e membro dell’Internazionale Socialista. Molto stimato in Francia, Bazoum è uno dei più brillanti esponenti dell’attuale governo nigerino ed è noto ai media per non avere peli sulla lingua, come conferma anche in questa intervista rilasciata pochi giorni or sono a Niamey nella quale spazia dalla minaccia jihadista proveniente dai Paesi vicini alle migrazioni illegali verso la Libia e l’Italia al conflitto libico del 2011. 

Il Niger è quasi completamente circondato da Paesi instabili, colpiti da guerriglia e terrorismo. Come avete fatto a garantire la vostra stabilità?

A mio avviso le ragioni sono due. La prima è una buona gestione delle questioni relative delle diverse comunità del Paese che prevede per tutte, incluse le componenti minoritarie, un buon accesso agli spazi e alle risorse pubbliche. Noi siamo arrivati al governo nell’aprile 2011 quando era in corso la guerra libica che noi valutiamo una minaccia, per il nostro Paese e per la regione, che si prolungherà negli anni a venire. In seguito alla disfatta delle forze lealiste, un gran numero di tuareg che combattevano con Gheddafi hanno cercato di rientrare in Niger con le armi e potevano diventare un grande fattore di instabilità. Abbiamo dovuto farci carico della gestione delle differenze tra le diverse comunità evitando che qualcuno potesse approfittare della situazione. La seconda ragione è che abbiamo messo un accento particolare sul potenziamento delle nostre capacità di difesa e sicurezza, compatibilmente con le nostre disponibilità, occupando il più possibile il territorio per non lasciare vuoti pericolosi.

I tuareg che combattevano con Gheddafi oggi sono tutti rientrati in Niger?

No, solo una piccola parte è rientrata in Niger, ha consegnato le armi ed è stata reinserita nella vita civile. Contrariamente a quanto accaduto in Malì, dove i miliziani provenienti dalla Libia occuparono il nord del Paese, in Niger non abbiamo permesso l’ingresso di uomini armati, né li abbiamo integrati nelle nostre forze armate che sono composte da professionisti e non da miliziani. Così molti di loro sono rimasti in armi nel sud della Libia, non sono ostili e abbiamo buone relazioni con loro. 

L’opposizione ha criticato l’aumento delle spese per la Difesa a discapito degli investimenti per Sanità e istruzione in un Paese che è tra i più poveri del mondo.

Dopo aver deciso di dare la priorità alla sicurezza abbiamo fatto anche molti sforzi nei settori sociali con buoni risultati. Abbiamo acquistato aerei ed elicotteri da combattimento e ricognizione e molte armi, veicoli Toyota. L’obiettivo è garantire la pace perché senza la stabilità nessun investimento sociale avrebbe senso.

Lei ha sostenuto con fermezza in un discorso alle Nazioni Unite la necessità di un intervento internazionale in Malì per stabilizzare il Paese. Ritiene che un intervento militare internazionale sarebbe oggi necessario anche in Libia? 

Sarebbe sicuramente necessario, ma temo sarà difficile che si verifichi poiché le forze che oggi provocano il caos in Libia sono molte e molto forti, con grandi capacità di opporre resistenza. Un intervento internazionale provocherebbe molte perdite, per questo nessun Paese ha finora proposto un intervento. In Malì, con un buon supporto aereo i francesi hanno ridotto considerevolmente le capacità dei terroristi consentendo un intervento terrestre con un rischio ridotto di perdite tra le truppe di Parigi. In Libia tutto questo sarebbe molto più difficile perché terroristi e islamisti sono ben armati e agguerriti. Un intervento sarebbe una partita molto difficile, sebbene io resti convinto della necessità di un’azione militare della Comunità internazionale.

Il supporto offerto, a quanto sembra, da Egitto e Algeria all’iniziativa del generale Haftar contro gli islamisti potrebbe anticipare un ruolo diretto di questi due Paesi nella soluzione militare della crisi libica?

Il generale Haftar sta facendo bene perché, nel disordine attuale che domina la Libia, la cosa più importante è avere un’autorità simboleggiata da una sola persona e Haftar è emerso nel momento in cui c’era bisogno di una figura su cui poter contare. Non so se è sostenuto da Paesi vicini, ma potrebbe esserlo. Il progetto di Haftar va sostenuto. Il Niger ritiene che la Libia abbia bisogno di stabilità e l’ipotesi preferibile per tutti è che dal voto del 25 giugno emerga una soluzione alla crisi.

Niger e Italia hanno in comune la questione degli immigrati clandestini. Molti di loro attraversano il Niger diretti in Libia per poi cercare di raggiungere via mare l’Italia. C’è chi dice che il 60% di coloro che arrivano in Italia passi dal Niger.

Non penso che tale percentuale sia credibile. Basta vedere la provenienza degli immigrati in Italia. Se fossero in gran parte dell’Africa occidentale direi che passano dal Niger, ma in realtà ho l’impressione che gran parte dei migranti che giungono da voi provengono dal Medio Oriente o dall’Africa Orientale: Eritrea e Somalia soprattutto. In quest’ultimo caso transitano dal Sudan e poi in Libia. Nigeriani, maliani, senegalesi e altri africani occidentali passano, invece, in parte dal Niger, in altra parte da Algeria e Marocco. Noi abbiamo dei programmi, uno con gli italiani che non è del tutto operativo e andrebbe rafforzato, basati su una maggiore cooperazione nella lotta all’immigrazione clandestina che deve avere una dimensione europea. L’Italia dovrebbe assumere l’iniziativa di definire programmi di questo tipo nel quadro della Ue col Niger, il Sudan e l’Egitto, Paesi di transito dei flussi migratori. Questo dovrebbe essere uno degli assi portanti del semestre di presidenza italiana dell’Unione. Si tratta di agire in fretta per interrompere questi flussi. 

A chi fanno capo le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici ?

La droga, ad esempio, proviene dall’America Latina, sbarca soprattutto in Guinea Bissau, attraversa il Sahara e arriva in Egitto grazie a una catena logistica che ha le sue basi principalmente in Malì, ma anche in Libia, Algeria, Niger e Marocco. Gli attori di questa “multinazionale del crimine” sono molti e disseminati in questi Paesi.

Molti Stati aiutano il Niger a restare stabile con programmi di addestramento, forniture militari e, nel caso di Francia e Stati Uniti, con la presenza di forze speciali e aerei da combattimento. Una presenza militare straniera giustificata dalla presenza jihadista ai confini (al-Qaeda, Mujao, Boko Haram), ma che rischia forse di diventare ingombrante?

Da Agadez al confine, abbiamo 600 mila chilometri quadrati di deserto presidiati da meno di mille militari. Per controllare i movimenti di guerriglieri, terroristi, trafficanti di droga, armi ed esseri umani occorre molta tecnologia: veicoli, GPS, telefoni satellitari per “occupare fisicamente” il deserto. Finché non avremo costruito eliporti, basi, aeroporti noi avremo bisogno di assicurare la nostra sicurezza attraverso i mezzi dei nostri partner stranieri. Intendiamo contare sulla presenza dei nostri amici solo il tempo necessario a permetterci di diventare autonomi nella gestione della sicurezza con mezzi e infrastrutture sufficienti a controllare il deserto e le nostre frontiere. Al momento non disponiamo di questi mezzi.  

Tutti o quasi i problemi d’instabilità che affliggono il Niger e il Sahel sono stati generati dalla guerra della Nato contro la Libia del 2011. Un grave errore dell’Occidente?

Si, non c’è dubbio. Noi avevamo messo in guardia l’Occidente che la società libica è parcellizzata, tribalizzata e distruggendo lo Stato le tribù sarebbero diventate entità autonome in un confronto interno caratterizzato da fattori criminali. L’unica forza politica organizzata in Libia è quella islamista, sia quella moderata sia quella estremista. Noi avevamo detto all’Occidente di non perdere di vista la realtà e di tenere conto della società libica. L’Unione Africana aveva proposto una soluzione che facesse uscire di scena Gheddafi preservando lo Stato e l’unità nazionale ma non siamo stati ascoltati anche se l’Italia ci è sembrata più sensibile a questa proposta. Incontrai in giugno il ministro degli Esteri, Franco Frattini, e gli dissi che voi italiani, che conoscete bene la situazione libica, dovevate giocare un ruolo più deciso, più positivo, evitando di seguire la corrente. Noi ci siamo battuti, ma non siamo stati ascoltati. Il 26 maggio 2011 il presidente Mahamadou Issofou,  invitato al summit di Deauville, è stato l’unico a dire ai leader occidentali che l’intervento in Libia avrebbe trasformato il Paese in un’altra Somalia offendo un’incredibile finestra di opportunità all’islamismo radicale. I fatti ci hanno dato ragione.