Capire Parigi, senza essere Charlie
L'attacco terroristico alla sede del Charlie Hebdo non è opera di lupi solitari e non può essere inserito nella casella degli "eccessi di legittima difesa" dell'islam. Detto questo, dobbiamo condividere quel che i vignettisti del giornale francese facevano? C'è un sottile equilibrio fra la libertà di espressione e la libertà di religione. E va mantenuto.
Nel giorno in cui, dai capi di Stato ai calciatori, tutti sono Charlie, molti nostri lettori – che non sono Charlie neanche un po’ – si saranno sentiti isolati, soli contro il mondo intero. Vorrei rassicurarli. Siamo in molti, probabilmente la maggioranza. Per non farsi intimidire si tratta però di dare al «Non sono Charlie» una dimensione culturale, giuridica e politica adeguata. Di questo siamo invece in pochi a parlare, ma – se ci spieghiamo bene e ci organizziamo – possiamo diventare molti.
Occorre anzitutto una premessa, che riguarda il terrorismo islamico. La polizia francese sta ancora cercando di dipanare la matassa, ma è chiaro fin da ora che i terroristi di Parigi non erano «cani sciolti». Avevano contatti reali con la Siria e lo Yemen, erano bene addestrati, e sembra avessero rapporti sia con al-Qa’ida sia con l’Isis. Queste organizzazioni sono entrate da tempo in una fase nuova nella storia del terrorismo ultra-fondamentalismo islamico, che ha come prima priorità quella di creare «emirati» (al-Qa’ida) o un grande «califfato» medio-orientale (l’Isis) che funzionino come veri e propri Stati – s’intende, non riconosciuti da nessuno – i quali battono moneta, hanno una polizia, scuole, tribunali e offrono al mondo l’esempio di aree completamente islamizzate secondo i dettami del fondamentalismo più radicale. Per costituire e difendere questi pseudo-Stati c’è bisogno di molti combattenti. Non bastano quelli reclutati in Medio Oriente. Occorre trovarne tra i musulmani di tutto il mondo, e oggi molti musulmani vivono in Occidente. Per reclutarli serve la propaganda. A differenza di quelli del passato – l’11 settembre, Madrid, Londra – gli attentati attuali non sono tentativi di destabilizzare i governi occidentali o di condizionare la loro politica estera – forse anche i terroristi hanno capito che questa si condiziona già da sola, senza bisogno delle bombe –, ma giganteschi spot per arruolare militanti al servizio del Califfo o degli «emiri» di al-Qa’ida che combattono in Iraq, in Siria, in Somalia, nello Yemen.
Le modalità di funzionamento attuali, nel 2015, di al-Qa’ida e dell’Isis – che sono molto diverse dalle strategie di bin Laden nel 2001 – inducono a pensare che chi ha programmato l’attentato di Parigi – perché è stato programmato, e non è l’opera di pazzi isolati – non avesse come primo scopo quello di «punire» Charlie Hebdo o di reagire alla provocazione rappresentata da certe vignette. La cupola terroristica non è partita da Charlie Hebdo. È partita dalla necessità – lo aveva spiegato un messaggio del leader di al-Qa’ida Zawahiri di un mese fa, uno di quelli che finiscono in un trafiletto a pagina quindici dei nostri giornali – di rilanciare il reclutamento con attentati spettacolari che infiammino l’immaginazione di giovani musulmani occidentali e li spingano ad arruolarsi. Pensando a quale spot per l’arruolamento avrebbe potuto essere più efficace, il terrorismo ha trovato Charlie Hebdo, ideale per un gesto propagandistico popolare perché conosciuto e detestato da tanti musulmani. Ma avrebbe potuto trovare tanti altri obiettivi. Non dobbiamo dunque cadere nella facile trappola che ci farebbe derubricare come «eccesso di legittima difesa» da parte dei musulmani gli accadimenti di Parigi, così come altri passati che presero a pretesto le «vignette danesi», un film americano e persino il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. Per il terrorismo ultra-fondamentalista islamico queste «provocazioni» sono sempre pretesti, elementi sfruttati in chiave propagandistica per creare attentati funzionali allo scopo di reclutare nuovi terroristi alzando una bandiera. Dunque nessuna «comprensione» per gli attentatori. Non sono giustizieri, sono terroristi criminali.
Una volta chiarito chi sono i terroristi e perché hanno agito possiamo cominciare a parlare seriamente anche di Charlie Hebdo, non senza un momento previo – che per il cristiano è sempre obbligatorio – di pietà e di preghiera per i morti, chiunque siano. Pietà e preghiera non significano però approvazione incondizionata di tutto quanto i morti hanno fatto in vita, che nel caso dei vignettisti di Charlie Hebdo comprende disgustose vignette pornografiche sulla Trinità e sulla Madonna. Si ha tutto il diritto di dissentire, senza essere immediatamente accusati di essere alleati di al-Qa’ida, da Giuliano Ferrara che ha descritto i vignettisti di Charlie Hebdo come «splendidi, spavaldi, eroici» (Il Foglio, 9-1-2015), e da Camillo Langone che sullo stesso giornale li ha definiti «martiri», dimenticando – eppure lo conosce – il detto di sant’Agostino secondo cui «martyres non facit poena sed causa», non è il modo in cui ti ammazzano che ti fa diventare martire, ma la causa per cui sei morto. Volendo cercare dei martiri, li si troverà più facilmente tra i duemila uccisi da Boko Haram lo stesso giorno in Nigeria. Capisco bene il discorso simbolico sull’attacco a Parigi cuore dell’Europa: ma resta che duemila morti in Nigeria hanno trovato spazio infinitamente minore di sedici in Francia.
Ma c’è un aspetto ancora più delicato. L’attentato di Parigi ha purtroppo ridato fiato alla tesi secondo cui chiunque discuta di possibili limitazioni al diritto dei vignettisti di offendere le religioni è sullo stesso piano dei terroristi. Non è così. La libertà di espressione fa certamente parte delle libertà fondamentali ma non è assoluta. Diversamente, dovrebbe essere lecito anche ripubblicare le caricature naziste contro gli ebrei. Nel 2011, come molti lettori sanno, sono stato Rappresentante dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa. Quella esperienza mi convince che trovare il punto di equilibrio fra libertà di espressione – specie quando si presenta, a ragione oppure (come nel caso di Charlie Hebdo) a torto, come espressione «artistica» – e libertà religiosa, che comprende il diritto delle persone e delle comunità religiose a non essere offese, è una questione molto delicata e giuridicamente complessa. Se il pendolo va troppo dalla parte del diritto delle comunità religiose a essere tutelate dalle offese, ci troveremo con i musulmani che considerano qualunque rappresentazione critica come islamofobia e ne chiedono la repressione penale. Ero tra i relatori alla conferenza dell’Osce sull’islamofobia che si tenne a Vienna nel 2011. Per fortuna prevalse il buon senso, ma diversi Paesi musulmani chiedevano direttive internazionali che avrebbero messo fuori legge qualunque critica dell’islam, una specie di versione planetaria delle leggi contro la blasfemia in nome delle quali si condannano all’impiccagione cristiani come Asia Bibi in Pakistan. Se però, spaventati da queste proposte, lasciamo che il pendolo vada troppo dalla parte della libertà di espressione indiscriminata, assoluta e senza nessun limite ci ritroveremo, anzi ci siamo già ritrovati, con le vignette porno sulla Trinità e la Madonna.
Occorre dunque uno sforzo culturale e giuridico per far riflettere almeno chi è ancora disponibile a pensare sul fatto che l’Occidente si vanta a ragione della sua nozione ampia della libertà di espressione, ma ampia non significa senza limiti, e anche le vignette possono diventare strumento di quell’intolleranza che è il terreno su cui nascono la discriminazione e la persecuzione. Aiutiamo chi ne dubita a riflettere su come le vignette della stampa popolare nazista, che dipingevano gli ebrei con l’occhio torvo e il naso adunco intenti a divorare bambini tedeschi, abbiano contribuito – e non poco – a creare un clima in cui molti in Germania hanno tacitamente approvato le leggi antisemite di Norimberga e le deportazioni.
Oppure sfogliamo la collezione di Charlie Hebdo e prendiamo un esempio, e non scelgo quello ovvio della fin troppo famosa vignetta dove il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono raffigurati, con tutti i dettagli, impegnati in un rapporto a tre omosessuale. Dopo che un certo numero di militanti islamici sono stati massacrati in Egitto, Charlie Hebdo ha pubblicato una copertina dove vediamo un musulmano crivellato di colpi mentre cerca di difendersi facendosi scudo con il Corano. ll commento è: «Il Corano è una merda. Non ferma le pallottole». Per spiegarsi meglio, il disegno raffigura un Corano dal sospetto e sgradevole colore marrone. Prendo questo esempio perché qualche giornale italiano lo ha riprodotto, esaltandone la fine ironia. Dal momento che qualcuno ora minaccia un’edizione italiana di Charlie Hebdo mi chiedo che reazioni susciterebbe, sugli stessi giornali, una prossima copertina, la prima volta che la mafia ammazza un poliziotto o un giudice, con il Corano sostituito dalla Costituzione, e il commento: «La Costituzione è una merda. Non ferma le pallottole». Sarebbe disgustoso e da condannare senza se e senza ma, con sequestro del giornale in edicola? Certo che sì. Ma perché offendere gli italiani dovrebbe essere illecito e offendere i musulmani o i cristiani no?
Trovare il punto di equilibrio giuridico fra libertà di espressione e libertà religiosa è un esercizio difficile e serio. Non possiamo risolvere la questione né scrivendo intemperanze su Facebook né indossando una maglietta «Je suis Charlie». Capire quello che è successo a Parigi senza essere Charlie: richiede riflessione e pacatezza, ma si deve e si può.