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ABORTO

Campagna pro Ru486, la spinta mortifera di Medici del Mondo

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Un rapporto dell’organizzazione Medici del Mondo se la prende con gli obiettori di coscienza e lamenta le resistenze in Italia alla diffusione dell’aborto farmacologico tramite Ru486. Un esempio di cultura della morte.

Attualità 06_10_2023

Medici del Mondo è una rete internazionale che, come recita il suo sito, «fornisce assistenza sanitaria alle persone più vulnerabili, denuncia le ingiustizie di cui sono vittime e promuove il cambiamento sociale». È impegnata in circa 400 progetti in 80 Paesi del mondo. Nata in Francia nel 1980, con l’intento di intervenire su situazioni di emergenza, l’associazione Médecins du Monde ha poi orientato la propria attività su campagne di formazione del personale sanitario e anche di organizzazione di campagne vaccinali in collaborazione con le industrie produttrici. Il 22 dicembre 2020, al termine del primo anno di epidemia Covid, nasce la sezione italiana, Medici del Mondo.

Negli scorsi giorni Medici del Mondo ha pubblicato un proprio rapporto, dal titolo: “Aborto farmacologico in Italia: tra ritardi, opposizioni e linee guida internazionali”, in cui lamenta che «l'accesso alla pillola abortiva in Italia è una corsa ad ostacoli». Tra le varie criticità sanitarie del nostro Paese, l’organizzazione di assistenza emergenziale non si è soffermata sull’aumento dei malori improvvisi, delle patologie oncologiche o delle difficoltà nell’accesso agli esami diagnostici, che sono le vere emergenze sanitarie in questo momento, ma sulle «difficoltà ad accedere all’aborto sicuro», nonostante tale pratica sia garantita ampiamente, purtroppo, dalla Legge 194/1978.

Medici del Mondo ha così lanciato una campagna dal titolo “The Impossible Pill”, che intende denunciare «quanto l'Italia sia colpevolmente distante dalle direttive dell'Oms». Secondo l’organizzazione che si definisce umanitaria, nel nostro Paese, sebbene l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) sia una prestazione compresa nei Lea – ovvero nell’elenco di prestazioni ritenute essenziali che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini – meno dei due terzi delle strutture ospedaliere (63,8%; dati del 2020 del Ministero della Salute) la effettua, e la pillola abortiva (RU486) continua a essere considerata un farmaco rischioso, nonostante l’Oms la promuova come «farmaco essenziale per la salute riproduttiva». Il rapporto di MdM sottolinea che ci sono anche “avanguardie”, come la Regione Lazio che ha introdotto la pillola abortiva nel regime ambulatoriale, o come l’Emilia-Romagna che ha iniziato a distribuire la RU486 nei consultori.

Inoltre, il rapporto dell’organizzazione se la prende, e non c’è da stupirsi, con gli obiettori di coscienza, che rappresentano il 36,2% del personale non medico, il 44,6% degli anestesisti e il 64,6% dei ginecologi, con un picco dell’84,5% – che preoccupa molto MdM – nella provincia autonoma di Bolzano (dati del 2020).

Le conclusioni del rapporto sono che in Italia l’aborto farmacologico sia ancora troppo poco praticato. L’aborto “fai da te” permetterebbe, rispetto a quello chirurgico, di bypassare l’obiezione di coscienza e anche misure, come quella dell’auscultazione ecografica da parte della gestante del battito cardiaco del figlio, che la mettono di fronte alla realtà della propria gravidanza. MdM osserva con soddisfazione che in Italia l’aborto farmacologico è passato dallo 0,7% nel 2010 al 31,9% nel 2020. Ma per l’organizzazione ancora non basta: si deve fare di più, perché questi numeri sono tuttora lontani da quelli di altri Paesi europei come la Francia e l’Inghilterra, dove gli aborti chimici sono oltre il 70% del totale (o dei Paesi scandinavi, dove si arriva al 90%), con la possibilità di somministrazione fino alla nona settimana di gravidanza e in day hospital, possibilità peraltro introdotta in Italia dalle controverse linee guida passate sotto il ministro Roberto Speranza nell’estate del 2020.

Questo innalzamento percentuale sarebbe l’ideale obiettivo da raggiungere per questa organizzazione sanitaria che vede nell’aborto farmacologico «un percorso di civiltà per tutelare il diritto alla salute e il diritto di scelta delle donne». Poi si offendono se si definisce tale visione una cultura della morte, contrapposta alla cultura della vita. E spiace che con tante buone cause sanitarie cui dedicare tempo, risorse e impegno, un’organizzazione internazionale debba rivolgere le proprie attenzioni all’implementazione delle morti di creature umane. Senza dimenticare una secondaria implementazione: quella dei profitti delle aziende che producono tali farmaci abortivi.



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