Brescia, il batterio killer e i rischi taciuti della Fivet
Perché nessuno ha parlato del grado di prematurità del piccolo morto dopo aver contratto il Serratia Marcescens? Perché gli altri neonati della terapia intensiva degli Spedali Civili di Brescia sono vivii? Perché l'ospedale non ha rivelato tutta la verità? Forse perché Paolo era nato tramite fecondazione assistita in un mondo che preferisce diffondere il panico piuttosto che parlare delle conseguenze della provetta.
Mancavano troppi elementi della vicenda del piccolo Paolo, nato e morto il 6 agosto scorso presso il reparto di terapia neonatale degli Spedali Civili di Brescia, per non far sorgere dei sospetti sul fatto che si stesse cercando di omettere qualcosa. Ad esempio, di quanto era prematuro il piccolo? In che modo era venuto al mondo? Ma soprattutto perché è morto dopo aver contratto il batterio Serratia Marcescens, mentre gli altri nove bambini della terapia intensiva, colpiti dallo stesso focolaio epidemico, sono sopravvissuti?
La prematurità del neonato e il fatto che fosse nato insieme al suo gemello faceva sospettare a un procedimento di fecondazione artificiale. In effetti, anche se la grande stampa e i media nazionali lo hanno taciuto, i suoi genitori, un impiegato commerciale di una grossa società di metalmeccanica di Brescia e un'insegnate di una scuola cattolica, avevano deciso di tentare di concepire un figlio in provetta. L’unico a darne notizia è stato Il Corriere di Brescia che ha intervistato l’avvocato della famiglia, Chantal Frigerio, la quale ha aggiunto che la coppia vuole «sapere perché è accaduto e se ci sono delle responsabilità». Ma quando nello stesso articolo si legge che Paolo aveva appena 22 settimane di vita è davvero difficile comprendere la richiesta della famiglia. Infatti, c’è ben poco da chiedersi il perché della morte di un bimbo nato a un’età gestazione le cui probabilità di sopravvivenza sono circa dell’8 percento, tanto che basta un semplice raffreddore per uccidere un neonato in condizioni così precarie. Forse più che chiedersi perché Paolo sia morto ci sarebbe da ringraziare che i gemelli siano nati vivi e che uno dei due lo sia ancora.
Le domande da porsi sono infatti altre: come mai anche il primario dell’ospedale ha taciuto tutta la verità, limitandosi a dire che il piccolo era «nato in condizioni da subito critiche»? Perché non difendersi e soprattutto non raccontare nei dettagli la vicenda per evitare il panico generale facendo pensare che un batterio come quello in questione, abbastanza diffuso, sia un “batterio killer” come titolavano alcune testate? Che all’ospedale convenga di più tacere per non mettere in cattiva luce una realtà redditizia come quella della fecondazione assistita?
Parrebbe di sì, visto che in questo campo l’omertà è normale. Chi spiega infatti che i bambini nati in laboratorio sono più a rischio di prematurità, di morte post partum e di malattie future come cancri e neopalsie, dato il processo che priva l’embrione del suo ambiente e che salta la selezione naturale? Praticamente nessuno. Eppure tutto il mondo scientifico è ormai concorde. Nel 2017 l'American Journal of Obstetric & Gynecology ha pubblicato uno studio che ha seguito fino ai 18 anni neonati nati naturalmente e tramite fecondazione artificiale, i cui risultati hanno rivelato che «i bambini concepiti in seguito a trattamenti per la fertilità sono a maggior rischio di tumori infantili» (su 242.187 casi l’incidenza di neoplasie era più del doppio nei nati in provetta). L’anno precedente la Pediatric Blood & Cancer rilevava nei nati da fecondazione assistita «un maggior rischio statisticamente significativo» per retinoblastoma e tumori del rene. Su Pediatrics del 2016 si osservava anche «un aumentato rischio di leucemia» e «un elevato rischio di linfoma di Hodgkin nei concepiti con fecondazione assistita».
Il British Medical Journal nel 2014 pubblicò invece i risultati dell’Evidence Based IVF Group sul fatto che chi nasce tramite fecondazione in vitro ha il 50 per cento di rischio maggiore di nascita prematura con ben il 70 per cento in più di nascita gravemente precoce. A ciò seguono i problemi di peso (inferiore a 1,5 chili nel 10 per cento nelle gravidanze bigemellari (25 nelle gravidanze di tre gemelli e oltre il 50 in quelle di quattro o più). A ciò si associa una mortalità perinatale di 4-5 volte superiore nelle gravidanze gemellari (9 volte superiore se i gemelli sono tre). Maggiore è anche la probabilità di morte dopo il parto, 3 volte superiore nei gemelli, e persino quella infantile: 5 volte più elevata. Cresce anche il rischio di paralisi cerebrale: 7 per cento per i gemelli e 28 per tre gemelli. Sono poi diffusi i problemi di ritardo nel linguaggio e nell’apprendimento.
Sempre nel 2014 la rivista Human Reproduction spiegava che durata della gravidanza e peso del bambino dipendono dal tempo trascorso nel terreno di coltura in vitro, ma purtroppo «non si conosce quale sia il metodo di coltura più efficace per la miglior riuscita della Fiv». Ci sono poi studi sulle malattie degenerative che colpiscono con più frequenza i nati in provetta, mentre i centri riabilitativi per bambini segnalano che la maggioranza degli handicappati sono nati in provetta. Già nel 2002 Strömberg rivelò che in Svezia gli handicap neurologici, sensoriali o mentali, i disturbi comportamentali, le malformazioni, i ritardi dei bambini in carico ai centri riabilitativi del servizio sanitario nazionale erano presenti in percentuale maggiore nei nati tramite fecondazione artificiale (escludendo i gemelli). La rivista scientifica Fertility and sterility ha confermato che i nati in provetta hanno il 37 per cento di possibilità in più di avere anomalie, come dimostrano i risultati della Nanjing Medical University. L’American Heart Association ha parlato poi dei problemi vascolari causati dalla fecondazione. Mentre già nel 2010 Pediatrics parlava di un più alto rischio di sviluppare tumori per i bambini nati da fecondazione. Persino il promotori della provetta ammettono questi rischi e le malformazione fetali più frequenti per i concepiti con Pma, ma chiaramente ovviano così: «Per tali motivazioni si consiglia di effettuare un'amniocentesi od una biopsia dei villi coriali a scopo diagnostico», il cui fine principale, si sa, è l’aborto.
È impossibile elencare tutti gli studi che convergono su questo tema, ma la lunghezza della lista taciuta dai media fa capire perché sul caso di Brescia si è preferito omettere e così alimentare gli allarmismi piuttosto che dire tutta la verità.