Biden su Putin e i migranti non soppesa le parole
Il presidente degli Usa Joe Biden ha rilasciato un’intervista a tutto campo al giornalista George Stephanopoulos, sul network televisivo ABC. Ha praticamente dato dell'assassino a Putin, provocando un incidente diplomatico. Ed ha dato un'imprevista svolta sovranista sull'immigrazione ("state a casa").
Il presidente degli Usa Joe Biden ha rilasciato un’intervista a tutto campo al giornalista George Stephanopoulos, sul network televisivo ABC. La frase incriminata consiste in due parole “I do” che lette nel contesto di quella domanda, vogliono dire “sì, lo penso”, “sì, penso che Vladimir Putin sia un assassino”. Quelle due parole, accompagnate alla promessa di “far pagare cara” l’intromissione russa nelle elezioni americane hanno provocato un incidente diplomatico. L’ambasciatore russo a Washington è stato richiamato. Già i media parlano di “nuova guerra fredda”, probabilmente esagerando. Quel che invece è passato un po’ più inosservato è un altro passaggio della stessa intervista. Quello in cui Joe Biden invita gli emigranti latino-americani a restare a casa, contraddicendo anni di retorica liberal pro-immigrazione. In entrambi i casi, Biden ha dimostrato, quantomeno, di non saper soppesare le conseguenze delle parole.
George Stephanopoulos non si può considerare come un giornalista ostile al nuovo presidente. Come tutti i suoi colleghi delle grandi emittenti, ha fatto la sua parte in campagna elettorale, porgendo le domande “giuste” al candidato democratico nel corso del Townhall, senza mai metterlo in difficoltà o in imbarazzo (mentre Trump veniva massacrato in Florida, in diretta, dall’incalzante Savannah Guthrie). Tuttavia, nell’intervista per la ABC, Stephanopoulos è tornato nei panni del giornalista indipendente e in almeno un paio di occasioni ha messo in difficoltà il nuovo anziano presidente. Nel primo caso, su Putin. E’ stato infatti il giornalista a ricordare: “Lei considera Putin un assassino” e Biden, senza pensarci troppo: “I do”, “sì, lo considero tale”. Due paroline che hanno scatenato immediatamente una bufera internazionale. A far indignare il Cremlino non è stata tanto la parte di risposta sulle elezioni “deviate”, sul rapporto di intelligence secondo cui Putin avrebbe gestito una campagna denigratoria contro Biden, che il nuovo presidente si ripromette di “far pagare caro” al suo avversario di Mosca. Quanto proprio quel “I do”, che Putin considera come un atto di guerra, “un attacco a tutta la Russia” e ha richiamato l’ambasciatore.
Sarebbe comunque esagerato definire la risposta di Biden come l’inizio di una “nuova guerra fredda” (che non è mai finita) o un segnale di netta discontinuità rispetto alla precedente amministrazione. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’amministrazione Trump non è mai stata tenera con la Russia di Putin. Ed è stato l’ex presidente a ritirare gli Usa dal trattato sulle armi intermedie (Inf), svolta epocale che ha posto fine a una pace che, almeno sulla carta, durava in Europa dal 1987. La differenza fra il poco clamore suscitato dalle politiche anti-russe di Trump e il molto clamore suscitato dalle prime parole (neanche politiche, ma solo parole) anti-russe di Biden, rientra nel capitolo “percezioni”. Biden viene percepito, in patria e all’estero, come un presidente anti-russo, se non altro perché gran parte della campagna democratica contro Trump si fondava sull’assunto che il presidente repubblicano fosse arrivato alla Casa Bianca grazie a una frode elettorale russa. In secondo luogo, conta il peso delle parole. Trump, benché duro nei fatti, non aveva mai dato del criminale al presidente russo. Biden lo ha fatto ad appena due mesi dal suo insediamento. Sicuramente fa impressione questa scelta dei termini, anche se la futura politica americana nei confronti della Russia, come si preannuncia e si prevede, dovesse risultare anche più soft, se non altro nel dialogo sugli armamenti atomici. Quindi è necessario porsi la domanda: Biden ha valutato le conseguenze delle sue parole?
Si direbbe di no, almeno a giudicare dalla seconda questione su cui il presidente è stato colto in castagna: l’immigrazione. Non una cosa da poco, considerando che Trump aveva vinto le elezioni del 2016 soprattutto per la sua politica del “muro” con il Messico. Biden e soprattutto la sua vicepresidente Kamala Harris, hanno annunciato una svolta immediata: stop alla costruzione di nuovi tratti del muro e promesso un corso molto più accelerato per dare la cittadinanza a 11 milioni di immigrati illegali già negli Usa. Queste parole, pronunciate in campagna elettorale e corroborate dai primi atti esecutivi, hanno subito creato un’impennata di ingressi illegali dalla frontiera del Messico. Sono circa 100mila gli arresti dei clandestini nel solo mese di febbraio, il 30% in più rispetto al mese precedente. Questa nuova ondata di immigrazione dall’America Centrale ha mandato in crisi le infrastrutture locali. I minori non accompagnati sono poco meno di 10mila (13mila secondo altre fonti) e sono confinati negli stessi centri (privati, appaltati dalla polizia di frontiera) che ai tempi di Trump venivano definiti “gabbie per bambini”. Oggi i media non osano più utilizzare questi termini. Ma Biden ha già dimostrato di non saper pesare le parole, né il momento in cui utilizzarle: evidentemente non si aspettava di provocare un’ondata migratoria, considerando che nessuno, al confine, era pronto ad accoglierla. A domanda sulle cause di questa intensificazione degli arrivi, Biden ha svicolato, affermando che le cause siano “fuga dalla criminalità e dalle catastrofi naturali” (leggasi: riscaldamento globale), oppure ricerca di migliori opportunità, dunque tutte cause di lungo periodo che non spiegano affatto come mai, proprio nel suo primo mese di presidenza, vi siano tanti arrivi clandestini.
Biden, nel corso della sua intervista ha parlato di tempi tecnici necessari per preparare un’organizzazione migliore e di istituzione di un numero verde per rimettere i minori in contatto con i loro genitori. Ma nel frattempo non ammette che il Texas e altri Stati di confine siano già in stato di crisi. Il senatore repubblicano Mitch McConnell, reduce da un’ispezione nel Texas, chiede di riconoscerlo come tale e di inviare agenti federali al confine, accusando l’amministrazione Biden di voltare lo sguardo dall’altra parte. Il nuovo presidente si rende conto, se non altro, di aver lanciato il messaggio sbagliato. Almeno così pare, quando afferma, in termini chiari, rivolgendosi agli emigranti: “Non venite. Non lasciate le vostre case”. Ma non era la retorica “sovranista”, questa? O è semplicemente la realtà che bussa alla porta?