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ELEZIONI USA

Biden è presidente degli Usa. Ed ora: guai ai vinti

Il Congresso ha certificato l’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti. Si insedierà ufficialmente il 20 gennaio, fra 12 giorni (per chi legge). Chuck Schumer, capogruppo democratico in Senato, ha però chiesto al vicepresidente in carica, Mike Pence, di attivare il 25mo emendamento che prevede la destituzione del presidente in carica. Non è ancora avvenuta ufficialmente la transizione, ma già inizia l'opera di dannazione della memoria del presidente repubbicano. Media, social media e anche i vescovi americani, condannano Trump per "l'assalto" al Campidoglio del 6 gennaio. 

- VIOLENZE INGIUSTIFICABILI, MA LA SINISTRA HA LE SUE COLPE di Brian Burch

 

Esteri 08_01_2021
Mike Pence e Nancy Pelosi certificano la vittoria di Biden

Il Congresso ha certificato l’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti. Si insedierà ufficialmente il 20 gennaio, fra 12 giorni (per chi legge). Chuck Schumer, capogruppo democratico in Senato, ha però chiesto al vicepresidente in carica, Mike Pence, di attivare il 25mo emendamento che prevede la destituzione del presidente in carica. Altrimenti Nancy Pelosi, speaker della Camera, minaccia di attivare una procedura di impeachment. I Democratici non vogliono permettere a Trump di essere in carica nella sua ultima decade da presidente e soprattutto non intendono accettare che sia lui a gestire la transizione dalla vecchia alla nuova amministrazione. La causa immediata di tanta fretta nel compiere l’ultimo dei molteplici tentativi di rimuovere Trump dalla presidenza è la manifestazione dei pro-Trump del 6 gennaio, sfociata nella loro irruzione nel Campidoglio. Tuttavia, la causa reale è certamente più profonda e meno poetica: i rapporti di forza sono cambiati profondamente.

Dopo la vittoria di entrambi i seggi del Senato in Georgia, i Democratici entreranno in possesso di Casa Bianca, Camera e Senato a partire dal 20 gennaio. Hanno la possibilità di esercitare il loro potere senza freni o contrappesi. Sanno però che 74 milioni di americani hanno votato per Donald Trump, un record per qualunque presidente che ha perso le elezioni. Sanno anche che la maggioranza schiacciante di quei 74 milioni è convinta che le elezioni sono state rubate da Joe Biden. In una dinamica democratica non basta dire che “non ci sono le prove”, sguinzagliando i fact checkers sui social network o ricordando che nessun tribunale ha accolto le istanze degli avvocati di Trump. Biden, semplicemente, sa di essere il presidente di metà nazione.

Non è solo la modalità assolutamente atipica in cui si sono svolte le elezioni di novembre (metà dei voti erano postali) e neppure unicamente il sospetto di brogli a renderlo illegittimo agli occhi di tanti americani. E’ anche il contesto che crea evidenti problemi di legittimità. Gli americani non sono ancora usciti da un periodo di pandemia in cui, in tutti gli Stati governati dai Democratici, sono stati imposti regimi di lockdown anche molto rigidi e duraturi, che hanno provocato un’ondata di disoccupazione (poi rapidamente assorbita dalla crescita economica). Biden ritiene che questa sia la strategia giusta. Di fronte alle difficoltà economiche di una classe di piccoli e medi imprenditori che hanno dovuto chiudere i battenti, i Democratici sono finanziati da aziende molto più grandi, come le Big Tech (Amazon, Google, Facebook, Twitter) che hanno solo guadagnato nella crisi. Nell’ondata di violenze scatenate da Black Lives Matter, con danni stimati sui 2 miliardi di dollari, a pagare è sempre stata la classe dei piccoli e medi imprenditori, negozianti, commercianti, ristoratori, che hanno subito il peggio dei saccheggi e delle devastazioni. Al contrario, l'elettorato del Partito Democratico, prevalente fra dipendenti statali, dipendenti di grandi aziende, mondo dello sport, dello spettacolo e della cultura, ha potuto solidarizzare con le proteste stando ben al riparo. Sensibile al Green New Deal, Biden promette di abbandonare il petrolio, su cui hanno sempre vissuto Stati interi come il Texas. Mai come in questa amministrazione l’America sarà più divisa: gli interessi della parte che ha votato Biden cozzano frontalmente con quelli di chi ha votato Trump.

Tutta la retorica sin qui seguita dal neo-eletto presidente, da novembre fino a ieri, era non a caso improntata sulla riconciliazione e l’unità nazionale. “Curare” l’America dalle fratture (lasciate da Trump, si intende) razziali ed economiche. Questo finché il Partito Democratico non si è aggiudicato, in Georgia, i due senatori che mancavano per completare la maggioranza alla camera alta del Congresso. E finché non c’è stato l’assalto al Campidoglio. Soffermiamoci ora su quest’ultimo aspetto. La manifestazione del 6 gennaio è stata la reificazione di tutte le peggiori paure dei Democratici, quelle di un Trump già restio ad ammettere la sconfitta e riluttante a lasciare la Casa Bianca che intenta un “golpe” contro il potere legislativo, anche contro lo stesso Partito Repubblicano che non gli è fedele. A ben vedere, gli eventi del 6 gennaio sono quasi una replica, speculare e opposta, di quel che avvenne nel 2016. Per chi non ha la memoria cortissima, infatti, l’inaugurazione dell’amministrazione Trump è stata segnata da violente proteste e dal continuo tentativo dei Democratici (appoggiati da una stampa alleata e allineata) di cambiare l’esito del voto del Collegio Elettorale, sino all’ultimo giorno disponibile: non avevano neppure appigli legali per farlo, solo la constatazione che Hillary Clinton aveva preso più voti su scala nazionale (e non conta: il presidente si vota per Stato non per testa). I manifestanti anti-Trump, va detto, non provarono mai a fare irruzione nella sede del legislativo. Ma le loro proteste non furono solo simboliche, ma molto violente, con gravi distruzioni di proprietà. La violenza, il 6 gennaio, c’è stata, ma soprattutto da parte delle forze dell’ordine: Ashli Babbit era disarmata, era lontana dall’agente in borghese che l’ha freddata con un colpo di pistola.

Dalla manifestazione al Campidoglio, mostrata dai media con commenti quali “la notte della democrazia”, “l’ora più buia”, o “il golpe di Trump”, il tono di Biden è cambiato repentinamente. Non si parla più di riconciliazione nazionale, ma di distruggere la memoria di Trump ed impedire che un fenomeno politico simile si ripeta di nuovo. Sarà come Nerone per i romani, o Mussolini per gli italiani: l’anti-trumpismo diverrà una credenziale per essere accettati nel mondo politico americano. Basti sentire questo passaggio nel discorso di Biden di ieri, il primo da presidente eletto: “Negli ultimi quattro anni abbiamo avuto un presidente che ha disprezzato la nostra democrazia, la nostra Costituzione, il nostro governo della legge (…) Ha lanciato un attacco totale alle istituzioni della nostra democrazia sin dall’inizio”. Cosa se ne deduce? Che l’America è stata sotto un aspirante tiranno e che i 74 milioni di americani che hanno votato Trump non hanno espresso una preferenza legittima.

A guidare questa opera di riprogrammazione dell’America "sbagliata" ci sono sicuramente i media, ormai a reti unificate dalla parte di Biden. E anche i social media che, tanto per cominciare, hanno bannato Trump. Twitter lo ha sospeso solo per 12 ore, mentre Facebook ha proclamato ieri (con un comunicato scritto personalmente da Mark Zuckerberg, il suo fondatore) un’espulsione di Trump a tempo indeterminato. Il presidente, ancora in carica, deve comunicare attraverso i profili social dei suoi portavoce. Infine Biden, presidente cattolico, ha dalla sua parte anche la Chiesa. La Conferenza episcopale americana ieri ha condannato ufficialmente la protesta dei pro-Trump. “Questo non è ciò che siamo come americani, dove la transizione pacifica del potere è uno dei segni distintivi – ha dichiarato monsignor José Horacio Gómez, presidente della Conferenza - In questo momento preoccupante, dobbiamo impegnarci nuovamente nei valori e nei principi della nostra democrazia e unirci come un'unica nazione sotto Dio. Affido tutti noi al cuore della Beata Vergine Maria. Possa lei guidarci nelle vie della pace e ottenerci saggezza e grazia di un vero patriottismo e amore per la patria”. L’arcivescovo di Washington, il neo-cardinale Daniel Gregory Wilton, ha ribadito: “Il tono di divisione che ha recentemente dominato le nostre conversazioni deve cambiare e coloro che ricorrono alla retorica incendiaria devono assumersi la responsabilità di incitare alla crescente violenza nella nostra nazione”, riferendosi unicamente a Trump. Per tutte le proteste di Black Lives Matter, da maggio a ottobre, con 19 morti, centinaia di feriti e danni miliardari, non sono mai state pronunciate parole così nette.