Berlusconi così anticomunista, degasperiano e mediatore
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Lungi dall'essere l'"americano" della politica italiana, o il “padrone” autoritario dipinto dai suoi oppositori più intransigenti Berlusconi era in origine, ed è rimasto sempre, immerso in una concezione della politica proto-novecentesca, lato sensu cattolica, imperniata sulla ricerca della mediazione e su un “moderatismo” antropologico, nemico di ogni acutizzazione del confronto.
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Il fatto che Silvio Berlusconi sia stato una tra le figure politiche più rilevanti nella storia dell'Italia repubblicana è oggi ormai comunemente riconosciuto, anche da chi lo ha a lungo ferocemente avversato. Così come è ormai concordemente riconosciuto il fatto che la centralità da lui assunta nella dialettica civile del nostro paese abbia segnato un mutamento decisivo nelle dinamiche della democrazia italiana, quello dall'assetto “centripeto” e “bloccato” della “prima Repubblica” al regime dell'alternanza e del bipolarismo caratteristico della “seconda”, durata dalla sua “discesa in campo” del 1994 all'inizio degli anni Dieci del nuovo millennio, inizio dell'epoca dei “tecnici” e dell'ondata antipolitica.
E tuttavia, nel tracciare un bilancio storico della parabola politica di Berlusconi, non si può fare a meno di notare, da questo punto di vista, una costante ambivalenza.
Da un lato, infatti, l'uomo di Arcore ha incarnato in maniera paradigmatica l'avvento repentino in Italia, dopo la fine della guerra fredda, di una dialettica politica fondata sulla leadership personale e sulla logica maggioritaria, in sostituzione del dominio degli apparati partitici, di un parlamentarismo ai limiti dell'assemblearismo, della frammentazione endemica tipica del cinquantennio precedente. La de-ideologizzazione del confronto, la “democrazia del pubblico” incentrata sui mass media, il “partito personale” sgominarono, con lui, praticamente da un giorno all'altro la sedimentata tradizione del “politichese” incomprensibile, degli uomini politici grigi e curiali, degli esoterici equilibri e accordi “di corridoio” tipici della classe politica che era stata protagonista di tutta la prima fase del secondo dopoguerra.
Dall'altro lato, però, pur assumendo quasi per una fatale necessità il ruolo di alfiere della curvatura “americana” - presidenzialistica, maggioritaristica, personalistica - della democrazia italiana, il Cavaliere non si è mai mostrato un convinto sostenitore di quel modello, e nei momenti decisivi della sua carriera ha anzi di fatto esercitato un'influenza decisiva in direzione sensibilmente diversa.
Nella Commissione bicamerale sulle riforme istituzionali presieduta da Massimo D'Alema, nel 1997, inizialmente il leader di Forza Italia e del “Polo delle libertà” sembrò avallare una soluzione presidenzialista, indirizzata verso il modello francese del semipresidenzialismo con sistema elettorale maggioritario a doppio turno; ma alla fine, quando il progetto era già stato approvato in Commissione con larga maggioranza trasversale, sconfessò bruscamente quel punto di intesa, dichiarandosi a favore del cancellierato di impronta tedesca con sistema proporzionale, e decretando così il fallimento dei lavori della Bicamerale.
Quando poi, nella legislatura successiva, il centrodestra berlusconiano, sulla base della solida maggioranza parlamentare ottenuta nelle elezioni del 2001, produsse tra 2005 e 2006 il proprio progetto di riforma costituzionale (poi bocciato dal voto popolare nel referendum di conferma), quest'ultimo non si fondava sul presidenzialismo ma sul “premierato”, con il rafforzamento delle prerogative del Presidente del Consiglio rispetto alle Camere e l'introduzione della “sfiducia costruttiva”, sempre sul modello tedesco.
Nel 2005, contestualmente, Berlusconi accoglieva poi le richieste provenienti soprattutto dai settori centristi della sua maggioranza in favore di un abbandono del sistema maggioritario uninominale a un turno in vigore dal referendum elettorale Segni del 1993, varando la legge elettorale proporzionale Calderoli con scrutinio di lista, liste bloccate e premio di maggioranza. Successivamente egli non avrebbe più abbandonato questo schema, opponendosi sempre a un ritorno al maggioritario, e in particolare respingendo, insieme al Movimento 5 Stelle, la prima versione della legge elettorale proposta dal deputato del Pd Ettore Rosato inclinata in tal senso, sostenuta dalla Lega, e votando nel 2017 a favore della sua versione corretta (il cosiddetto “Rosatellum”), sistema misto composto da due terzi di eletti con proporzionale corretto e un terzo con maggioritario a un turno.
Tale ostinata avversione avrebbe potuto essere spiegabile con considerazioni puramente utilitaristiche nel periodo del declino del consenso elettorale verso Berlusconi, a partire dallo scioglimento del Popolo della Libertà, quando Forza Italia complessivamente non avrebbe mai più potuto aspirare a conquistare una maggioranza che sostenesse il suo leader come premier. Ma essa si riscontra, come abbiamo visto, anche in epoca molto precedente, quando le coalizioni di centrodestra erano vincenti e in esse Forza Italia, e poi il Pdl, dettavano decisamente legge sugli altri gruppi.
In realtà, al di là dei calcoli e delle considerazioni pratiche, il Cavaliere inclinava in tal senso innanzitutto per formazione politico-culturale e indole caratteriale. “Costretto” dalle circostanze storiche e da quelle che egli riteneva, nella fase di transizione tra 1992 e 1994, urgenze inderogabili a essere il leader “americano”, naturaliter presidenzialista, del centrodestra, egli rimaneva a tutti gli effetti un uomo della “prima Repubblica”, cresciuto politicamente nel centrismo.
La sua stella polare ideale era la coalizione degasperiana del 18 aprile 1948, che egli ricordava sempre come la sua prima esperienza politica rilevante in giovanissima età. Anticomunista “da guerra fredda”, fino al crollo del sistema dei partiti sotto la scure della “rivoluzione giudiziaria” dei primi anni Novanta Berlusconi ebbe come riferimento costante la Democrazia cristiana, integrata in seguito dalla simpatia per il socialismo riformista-liberale craxiano e per la cultura liberale anglosassone reaganiana-thatcheriana. E non a caso nella classe politica del suo “partito personale” avrebbe assimilato prevalentemente, accanto a qualche “professore” liberale, reduci del partito cattolico e del Psi.
In aggiunta, la cultura imprenditoriale di Berlusconi era quella di un proprietario manager “familiare” della tradizione provinciale italiana, uso a risolvere qualsiasi conflitto con la capacità di relazione personale. Quindi, anche quando divenne leader politico, egli continuò a ritenere di poter governare, più che con la forza dei voti e dei seggi, con la sua personale abilità di “farsi concavo e convesso” e mettere d'accordo tutti. Nei suoi governi di coalizione, tendeva a concedere dunque molto anche alle formazioni minoritarie, anche al di là del loro potere di condizionamento numerico. Questo suo atteggiamento si rivelò in effetti più volte, al contrario di quanto egli pensava, un boomerang, indebolendo le sue compagini e impedendo ad esse una strategia coerente.
Insomma, lungi dall'essere l'”americano” della politica italiana, o il “padrone” autoritario dipinto dai suoi oppositori più intransigenti, il Cavaliere era in origine, ed è rimasto sempre, immerso in una concezione della politica proto-novecentesca, lato sensu cattolica, imperniata sulla ricerca della mediazione e su un “moderatismo” antropologico, nemico di ogni acutizzazione del confronto.