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IL BELLO DELLA LITURGIA

Beato Angelico, il pittore che «ha veduto il Paradiso»

Al secolo Guido di Pietro, furono i contemporanei a chiamarlo Beato Angelico per la profonda spiritualità della sua pittura. Aveva compreso che il vero fine dell’arte è veicolare la Bellezza e la Verità, come dimostra, tra le sue molte opere, l’Annunciazione dipinta per il convento fiorentino di San Marco. Tra gli ammiratori dell’Angelico, la cui festa liturgica ricorre il 18 febbraio, Michelangelo. Che di lui diceva: «Quest’huomo l’ha veduto il Paradiso»

Cultura 22_02_2020

Beato Angelico, Annunciazione [detta “della cella 3”], Firenze - Museo di San Marco

Beato l'uomo a cui insegni la tua legge, Signore (Sal 93).
 

«Il vero artista è custode della bellezza del mondo e grazie alla sua particolare sensibilità estetica può cogliere più di altri la bellezza della fede». Le parole di Benedetto XVI fanno chiarezza sulla funzione educativa ed evangelizzatrice dell’arte che, se non è fine a sé stessa, ha, tra gli altri, il potere di farsi portavoce della Bellezza e della Verità da essa sottintesa. Compito dell’artista, continua il Santo Padre, è «indicare la via Pulchritudinis, ovvero attraverso il bello condurre l’uomo a Dio». Il Beato Angelico, al secolo Guido di Pietro, nato a Vicchio di Mugello, in quel di Firenze, alla fine del Trecento, perseguì questo obiettivo per tutta la vita.

Affermato “dipintore”, entrò nell’Ordine domenicano di Fiesole, divenendo fra Giovanni da Fiesole. Beato Angelico è l’appellativo, codificato poi da Vasari nelle “Vite”, che gli diedero già i suoi contemporanei per la profonda spiritualità della sua pittura e per la docile umanità. Papa Giovanni Paolo II, nel 1982, ne concesse il culto liturgico a tutto l’Ordine e, due anni dopo, lo proclamò patrono universale degli artisti.

La Bellezza fu, dunque, a lui molto familiare. «Belle, quanto più non si può dire» sono le storie del Nuovo Testamento che dipinse presso il convento fiorentino di San Marco, la sua impresa più famosa e il ciclo pittorico più vasto e organico fino ad allora pensato per uno spazio privato. «Dicono alcuni», riporta sempre il Vasari, «che fra Giovanni non harebbe preso i pennelli se prima non avesse fatto orazione». E, in effetti, questi affreschi sembrano proprio preghiere dipinte.

L’Angelico ci lavorò a partire dal 1440, accanto a Michelozzo, architetto di fiducia di casa Medici, il quale, nella riqualificazione dell’antico convento, perseguì criteri di semplice funzionalità; le pareti degli ambienti del piano terra, che si sviluppano intorno a due chiostri, e quelle delle celle del primo piano, appositamente intonacate di bianco, furono tutte interessate dall’intervento del maestro, coadiuvato da collaboratori.

Regista del programma decorativo, probabilmente, fu il priore Antonino Pierozzi, divenuto poi vescovo di Firenze, convinto promotore dell’arte quale straordinario strumento di catechesi. Gli episodi della vita di Cristo narrati dall’Angelico ai suoi confratelli, e a noi posteri, sono offerti alla vista quali misteri su cui meditare. La loro funzione determinò anche lo stile pittorico che si fece essenziale nel rigore compositivo, non indulgendo il pittore su elementi potenzialmente distraenti. È un racconto, il suo, immediato, colorato con tonalità luminose, e popolato da figure espressive. In ogni scena evangelica raffigurò sempre anche un santo domenicano, perché i frati contemplassero ciò che erano chiamati a vivere.

La festa liturgica del Beato Angelico ricorre il 18 febbraio. È stato, quest’anno, il giorno della riapertura del transetto della basilica romana di Santa Maria sopra Minerva, dove sono conservate le sue spoglie mortali e opere d’arte di assoluto valore, come il Cristo risorto scolpito da Michelangelo. Proprio il grande Buonarroti, ammirandone in silenzio un’Annunciazione, così disse: «Quest’huomo l’ha veduto il Paradiso».