Battaglia sulle Ong, il governo perde la prima mano
Sulle Ong il governo Gentiloni si gioca la faccia. Per ora ha perso la prima mano perché solo tre organizzazioni su dieci, fra quelle che operano per il recupero immigrati nel Mediterraneo, hanno firmato l'accordo per accettare il nuovo codice di condotta. Ora sta al governo mostrare determinazione.
Sulla vicenda delle regole imposte da Roma alle dieci Ong attive nel Canale di Sicilia verrà presto messa alla prova la determinazione dell’Italia nel ripristinare la propria sovranità e nel contrastare i flussi di immigrati illegali.
Favoriti non solo dai trafficanti libici ma anche dalla sorta di “estremismo umanitario” che coinvolge diversi soggetti privati, protagonisti del business dei soccorsi e dell’accoglienza in Italia dei migranti illegali. Se contro i primi potrebbe risultare decisiva la nuova missione navale italiana varata ieri per fornire appoggio logistico e operativo alla Guardia costiera libica, contro i secondi lo scontro sembra essere paradossalmente ancora più aspro.
Il codice di condotta imposto dal ministero degli Interni è stato firmato solo da tre Ong (Save the children, MOAS e Proactiva open arms) mentre tra le sette che si sono rifiutate di sottoscriverla c’è anche Medici senza frontiere (MSF) che ha comunque annunciato che proseguirà le attività di soccorso. Il Viminale riporta in una nota che “l’aver rifiutato l’accettazione e la firma pone quelle organizzazioni non governative fuori dal sistema organizzato per il soccorso in mare, con tutte le conseguenze del caso concreto che potranno determinarsi a partire dalla sicurezza delle imbarcazioni stesse”. Se questo significa solo un inasprimento dei controlli amministrativi sulle navi delle Ong “ribelli” o che queste verranno bandite dalle acque territoriali italiane non è ancora chiaro. Solo la seconda opzione però salvaguarderebbe la dignità e sovranità nazionale, mentre la prima suonerebbe come una precisa ammissione da parte del governo di subalternità rispetto agli ambienti che sostengono il lavoro delle Ong e che certo non operano a favore degli interessi nazionali.
Non firmando il codice, le 7 Ong rifiutano di accettare poliziotti italiani a bordo, di comunicare l’identità dei loro finanziatori e di rendere conto costantemente della propria attività alla Guardia costiera italiana. Inoltre respingono il divieto di ingresso nelle acque libiche e di comunicare con i trafficanti, l’obbligo di non ostacolare la Guardia costiera libica e di non spegnere i transponder che segnalano la posizione della nave. “Limitando i trasbordi si fa crescere il numero di viaggi, il che rende le missioni economicamente meno sostenibili soprattutto per le Ong più piccole. E si rallentano le operazioni di soccorso, quando i minuti possono fare la differenza tra la vita e la morte” ha detto al Corriere della Sera Gabriele Eminente, direttore di MSF.
Inoltre “la presenza di funzionari armati a bordo e l’impegno che gli operatori umanitari raccolgano prove utili alle attività di investigazione rappresentano una violazione dei principi di indipendenza, neutralità e imparzialità cui ci ispiriamo”. L'Associazione studi giuridici sull'immigrazione (ASGI) si è spinta addirittura a definire “una bolla di sapone” la prospettiva di sanzioni ventilata dal Ministero degli Interni. Il Codice "non è un atto avente valore di legge, né una disposizione regolamentare, emanata in attuazione di una norma primaria, e per di più si rivolge ad una pluralità di soggetti non gerarchicamente collegati con la pubblica amministrazione - scrive l’ASGI in una nota che definisce illegittima una eventuale reazione del governo nei confronti delle Ong non firmatarie.
Di fatto le Ong e la rete pro- accoglienza indiscriminata che le sostiene hanno la curiosa pretesa di poter continuare a fare ciò che vogliono imbarcando chiunque salpi dalla Libia grazie a organizzazioni criminali, per poi sbarcarli in Italia senza controlli preventivi da parte delle autorità di Roma. Il governo italiano non può vietare che le navi delle Ong imbarchino immigrati illegali in acque internazionali, può certo impedire alle navi di quelle società che non hanno sottoscritto il codice di condotta di accedere alle acque e ai porti italiani. Se il governo Gentiloni vuole combattere davvero l’immigrazione illegale con la nuova missione navale concordata su richiesta libica e imponendo regole ferree alle Ong deve però mettere in conto che si farà molti nemici.
Dai trafficanti libici, che secondo Europol incassano 6 miliardi di euro annui dai flussi di migranti illegali, alle Ong che gestiscono il business dei soccorsi fino alle cooperative ed enti che si spartiscono ogni anno miliardi di euro (quasi 4 l’anno scorso, circa 5 quest’anno) del giro d’affari dell’accoglienza. Gli esempi di questa “guerra” sono già ben visibili. Per Amnesty International "il progetto del governo italiano di inviare navi da guerra per pattugliare le acque territoriali libiche è un vergognoso tentativo di aggirare gli obblighi di salvataggio di migranti e rifugiati e di offrire protezione a chi ne ha bisogno". Il Centro Astalli, Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia, dice di temere che vi siano morti in mare tra i migranti (ma l’intervento navale in acque libiche ridurrà invece questo rischio), chiede carta bianca alle Ong e condanna ogni accordo che impedisca ai migranti di lasciare “la Libia instabile”, cioè che impedisca loro di venire in Italia.
Per il governo Gentiloni si tratta però di un’importante opportunità politica di mostrare come un esecutivo finora prono ai trafficanti e ai buonisti, non sempre disinteressati, può essere in grado di far cessare i flussi migratori tutelando gli interessi e la sicurezza nazionali.