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Basta una sentenza per mettere fine al monopolio di Google?

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Che cosa succederà dopo la condanna di Google negli Stati Uniti per aver monopolizzato i motori di ricerca? La sentenza può essere un precedente giurisprudenziale che influenzerà altre cause antitrust, da Apple ad Amazon. 

Editoriali 07_08_2024

Da anni i colossi del web sono nel mirino delle diverse autorità giudiziarie nazionali e internazionali per le loro posizioni dominanti. Nelle ultime ore, però, c’è stata una svolta non da poco, destinata a prolungare i suoi effetti nel tempo e in tutto il mondo. Il giudice Amit P.Mehta della Corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto di Columbia, dopo 10 settimane di processo, ha stabilito che Google ha agito illegalmente per mantenere un monopolio nel settore della ricerca online. Qualcuno, con enfasi ha parlato di “processo antitrust del secolo”.

Si tratta in effetti di una sentenza destinata a incidere in modo radicale sul mercato globale strategico e che dà ragione al Dipartimento di Giustizia e ad alcuni Stati della Federazione che avevano intentato la causa nel 2020, accusando Google di aver consolidato illegalmente il suo predominio. In parte, secondo l’accusa, pagando ad altre aziende, come Apple e Samsung, miliardi di dollari all’anno per far sì che il motore di Mountain View gestisse automaticamente le query di ricerca sui loro smartphone e browser web.

Google spende miliardi di dollari all’anno per essere il motore di ricerca automatico su browser come Safari di Apple e Firefox di Mozilla e sui loro smartphone, e ha pagato alla sola Apple circa 18 miliardi di dollari nel 2021 e 20 miliardi di dollari nel 2022 per essere il motore di ricerca predefinito.

Questi accordi, ha scritto Mehta, «hanno dato a Google l’accesso a un’economia di scala che i suoi rivali non possono eguagliare». Inoltre, si legge sempre nella sentenza, «il monopolio di Google nella ricerca sul web le ha permesso di gonfiare i prezzi per le inserzioni pubblicitarie».

«Dopo aver attentamente considerato e soppesato le testimonianze e le prove, la Corte giunge alla seguente conclusione: Google è un monopolista e ha agito come tale per mantenere il suo monopolio», ha concluso il giudice Amit Mehta, secondo cui Google, bloccando il 90% del mercato della ricerca su Internet, «ha violato la Sezione 2 dello Sherman Act», che rende illegale per qualsiasi persona o azienda monopolizzare, tentare di monopolizzare o cospirare per monopolizzare qualsiasi parte del commercio.

Quali saranno gli effetti pratici del provvedimento del giudice Usa? Google sarà costretta a cambiare il suo modo di operare o a scorporare parte della sua attività. Ma le conseguenze saranno probabilmente di altra natura. Si tratta infatti di un precedente giurisprudenziale che certamente influenzerà altre cause antitrust del governo Usa contro Google, Apple, Amazon e Meta.

I dati ufficiali relativi al mercato globale dei motori di ricerca segnalano che a febbraio 2024 Google deteneva una quota pari al 92%, che dal 2014 in poi non è mai scesa sotto il 90%.

Il colosso di Mountain View ha tuttavia fatto sapere che farà ricorso in appello contro la sentenza, «la quale - a detta di Kent Walker, Presidente degli affari legali Google - riconosce che Google offre il miglior motore di ricerca, ma conclude che non dovremmo essere autorizzati a renderlo facilmente disponibile».

La partita, in verità, è ancora più ampia e coinvolgerà anche l’ambito dell’Intelligenza Artificiale. Tra i testimoni del processo contro Google c’era infatti anche Satya Nadella, l’amministratore delegato di Microsoft, che si è detto preoccupato del fatto che la posizione dominante di Google abbia creato un “web Google” e ha definito un “oligopolio” la relazione tra la società e Apple. Secondo Nadella, se Google verrà lasciata libera finirà per dominare anche il settore dell’intelligenza artificiale.

Microsoft sta peraltro facendo concorrenza a Google nelle ricerche web attraverso un proprio motore di ricerca, Bing, dotato di funzionalità di intelligenza artificiale. Se i comportamenti di Google giudicati anticoncorrenziali da Mehta dovessero riprodursi anche nel settore dell’AI, gli effetti potrebbero essere ancora più devastanti, non solo sul piano della libertà d’impresa ma anche su quello della tutela dei diritti dei consumatori.

Ecco perché c’è da sperare che il verdetto statunitense possa aprire la strada ad un’innovazione tecnologica realmente al servizio delle generazioni future, in un equilibrio di mercato non viziato da posizioni dominanti ma aperto al pluralismo economico e culturale.