Barbarie su Cavina, vescovo che la Chiesa non ha difeso
Dietro le dimissioni choc del vescovo di Carpi Cavina c'è una campagna di delegittimazione proseguita anche dopo l'inchiesta per voto di scambio da cui è uscito pulito. Le intercettazioni con materiale privato ed ecclesiale e non inerente all'inchiesta, stanno girando ancora indisturbate nelle chat di whatsapp "impazzite". La solita gogna mediatico giudiziaria. Ma anche l'abbandono dei piani alti della Chiesa che di fronte alla barbarie giustizialista non l'ha mai difeso. Forse perché Cavina era abituato a dire la verità anche su temi ormai scottanti per la Chiesa su famiglia e vita.
Nella sua prima e breve esperienza episcopale, monsignor Francesco Cavina si è trovato a dover gestire due terremoti: uno geologico nel 2012, l’altro mediatico, ma è solo di fronte al secondo che è capitolato. Come attestano le improvvise dimissioni annunciate ieri (leggi qui il comunicato della Diocesi) la causa sono gli attacchi mediatici che sono proseguiti anche fin dopo l’inchiesta che l’aveva visto coinvolto e per la quale nessuno - né in città né ai piani alti della Chiesa - lo aveva difeso.
L’inchiesta che lo ha visto infatti indagato per voto di scambio, parte da uno spettacolo di fontane danzanti per l’inaugurazione della statua della Vergine della Cattedrale finalmente tornata in facciata dopo il lungo restauro causa sisma. Un’accusa ridicola e quindi facilmente smontabile. Così come la complicità con l’amministrazione comunale, che era inesistente perché tutto era stato fatto alla luce del sole. Eppure per dimostrare i suoi presunti “torbidi” rapporti con il vicesindaco di Carpi i carabinieri lo misero sotto intercettazione. E queste intercettazioni finirono all’attenzione dei giornali o comunque in mani che non dovevano averle tanto che anche l’Espresso in un suo “coraggioso” articolo ne ha parlato.
Cavina ha ottenuto l’archiviazione per quell’indagine ad aprile, praticamente subito dopo l’emergere di quei fatti. Ma c’erano ancora dei veleni in aria, dei filamenti tossici in grado di fare male. Le intercettazioni telefoniche erano relative a comunicazioni private: in esse Cavina parlava con persone estranee del tutto all’inchiesta. E parlava di tutto, anche di argomenti da confessione, come i rapporti tra una moglie e un marito regolarmente sposati. Ma parlava anche della Chiesa, di politica ecclesiastica, di questo e di quel monsignore che aveva fatto carriera. Parlava, in fondo, di cose normali, si scambiava informazioni su quello che è il suo mondo. E commentava. Tutto questo aveva a che fare con l’inchiesta? No. Eppure tutto questo, anche dettagli imbarazzanti non tanto per Cavina, ma per una sua interlocutrice, sono finiti in giro. Materiale di chiacchiericcio nelle chat di watshapp di una cittadina vivace e abituata a sapere tutto di tutti.
Gira di qua e gira di là, i testi delle intercettazioni sono arrivati anche alla conoscenza di alcuni dei diretti interessati. I quali hanno capito che la materia poteva diventare scottante e sopratutto il reato evidente e palese. A quel punto Cavina, informato che anche dopo l’inchiesta dalla quale era uscito pulito, continuavano a girare voci su di lui e che queste potevano essere incontrollabili, ha capito che era il momento, per il bene della Chiesa e della Diocesi, di lasciare. Ecco perché nel suo comunicato parla di “gogna mediatica a cui sono stato sottoposto che non si è interrotta”. Perché quelle intercettazioni sono diventate il principale materiale di chiacchiericcio lungo i portici schierati militarmente di fronte al castello dei Pio.
Eppure quelle intercettazioni non dovevano diventare di dominio pubblico. Anzitutto perché quando uscirono fuori, Cavina era solo indagato e non imputato in alcun processo; in secondo luogo perché non avevano nulla a che fare con l’inchiesta.
E’ evidente che la fuga di notizie ha dei responsabili, ma questi non salteranno mai fuori. Nessuno pagherà e questo lo dice con rammarico il Centro Studi Livatino, che ha parlato di«illegale e mai sanzionata propalazione degli esiti delle intercettazioni, in stretto collegamento col fango messo in circolazione in modo sistematico sempre dalle stesse testate giornalistiche» che ha provocato e provoca «sofferenze a innocenti» e «a condizionare la libertà della Chiesa». Ma lo dicono anche le Camere penali di Modena che in un comunicato parlano di «frutto avvelenato della scarsa vigilanza sul mantenimento del segreto sugli atti di indagine».
Ma il problema non è solo giudiziario. E’ anche ecclesiale.
In questi sette anni Cavina ha ricostruito la sua diocesi in ginocchio con pazienza, silenzio e coraggio, ha avuto ben due papi in casa (Benedetto XVI dopo il sisma e Papa Francesco per l’inaugurazione della Cattedrale), record per un unico mandato episcopale, ha instaurato un rapporto eccellente con i giovani, i fedeli laici e le realtà ecclesiali più importanti. Ma non ha mai accolto imam in cattedrale, né organizzato conferenze con la Massoneria e nemmeno ha tuonato contro il governo xenofobo.
Per un certo milieu culturale era definito un vescovo ratzingeriano, etichetta che, quando ti viene appiccicata non riesci più a scrollartela di dosso, perché dire ratzingeriano vuol dire automaticamente e senza appello essere un nemico di Papa Francesco.
Quando uscirono le notizie delle intercettazioni e si parlò di segreto confessionale violato non ci fu un solo vescovo che provò a difendere Cavina da quello che era già uno stillicidio di sospetti e accuse. Questo giornale si fregia di averci provato, primo e unico, con gli strumenti del mestiere che gli sono propri, nel disinteresse generale.
Nessuno tra i vescovi della Cei Emilia Romagna si alzò in piedi per dire che la fuoriuscita di quelle intercettazioni era un abominio civile e una inaccettabile intimidazione a un vescovo. Quando si toccano i sacramenti - e la confessione lo è - bisognerebbe rendersi conto che lo scontro si è alzato e contrattaccare di fronte a un reato perché tale è quello di dichiarazioni private che vengono date in pasto per delegittimare. Invece, tutti zitti.
Si potrebbe ipotizzare che Cavina desse fastidio ai piani alti delle gerarchie ecclesiastiche perché non era allineato al nuovo corso, ma sarebbero solo illazioni.
Quel che è certo è che Cavina è stato ostracizzato molte altre volte. Ad esempio quando i vescovi dell’Emilia Romagna pubblicarono un documento su Amoris Laetitia nel quale la castità tra gli sposi veniva relegata a mera opzione. L’unico ad opporsi fu lui. Ma Cavina è stato anche il vescovo che, proprio su interessamento della Nuova BQ, provò con coraggio e utilizzando i suoi buoni uffici in Segreteria di Stato, a risolvere la vicenda di Alfie Evans portando il papà Thomas dal Papa. E anche questo non piacque a certi vescovi più morbidi sul tema eutanasia.
Cavina inoltre, mentre tutti i vescovi se ne stavano zitti o persino si dicevano contrari, è stato il solo a parlare a favore del Congresso Mondiale per le Famiglie di Verona. Insomma: in questi sette anni ha fatto il vescovo. Non ha fatto il politico e si è concesso alla politica solo perché un vescovo di una cittadina di provincia deve avere per forza rapporti istituzionali con tutti, a maggior ragione se devi ricostruire l’intero patrimonio ecclesiastico crollato dopo il sisma.
Tutto questo - compresa l’onestà e il coraggio di dire le cose come stanno - ha un prezzo. E il conto è arrivato in questi giorni con una campagna di delegittimazione che non si è fermata neppure dopo il gong del giudice per le indagini preliminari. A quel punto, le dimissioni non erano altro che una pura formalità.