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decreto caivano

Baby stupratori: la soluzione è educativa, non "rieducativa"

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Contro l'epidemia di stupri da parte di minori si prevedono misure drastiche, che peccano di quello stesso statalismo che ha estromesso la famiglia dal suo ruolo principale: l'educazione.

Editoriali 08_09_2023

Ecco licenziato dal Governo il «decreto Caivano» per intervenire contro le cosiddette baby-gang. Ricapitoliamo.

Verso la fine di agosto esce la notizia di stupri durati mesi, da parte di un gruppo di minori ai danni di due cugine di 13 anni, a Caivano, in provincia di Napoli. Don Maurizio Patriciello, parroco di un quartiere di Caivano (Parco Verde) ha invitato il premier Meloni a recarsi sul luogo per far sentire la presenza delle istituzioni. Il premier non solo ha fatto visita a questi luoghi, ma ha anche disposto un vero e proprio rastrellamento del quartiere da parte delle forze dell’ordine.

A dire il vero, qualche giorno prima, un evento simile è accaduto a Palermo e, prima ancora, a Firenze. In questi due casi, nessun rastrellamento, anzi: i media hanno sottolineato a più riprese che si trattava di ragazzi «normali». Insomma: una vera e propria «epidemia» di stupri di gruppo perpetrati da ragazzini minorenni. Ovviamente, il pensiero corre attraverso la sempre più precoce sessualizzazione dei nostri bambini, dai corsi di «educazione sessuale» all’uso ormai diffusissimo di smartphone e social media.

Ma veniamo al contenuto del decreto. Ecco le principali misure previste (sempre secondo gli organi di stampa):
- ammonimento, da parte del questore, al minore a partire dai 14 anni;
- una sanzione da 200 a 1000 euro ai genitori per mancato assolvimento degli obblighi educativi;
- fino a due anni di carcere se il figlio non frequenta la scuola dell’obbligo scolastico (18 anni o 16 in caso di qualifica professionale triennale);
- «DASPO» (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) urbano, cioè divieto di accesso a un determinato comune diverso da quello di residenza;
- «un percorso di reinserimento e rieducazione civica e sociale sulla base di un programma rieducativo che preveda [...] lo svolgimento di lavori socialmente utili o la collaborazione a titolo gratuito con enti no profit o lo svolgimento di altre attività a beneficio della comunità di appartenenza, per un periodo compreso da uno a sei mesi»;
- stanziamento di fondi per le scuole del Mezzogiorno.

Tralasciamo alcuni punti, ad esempio l’uso di un provvedimento legato al mondo dello sport (il DASPO) per qualunque provvedimento che limiti la libertà di movimento dei cittadini; oppure il fatto che, invece di promuovere una riflessione sul modello che la nostra società propone ai ragazzi, si intervenga con leggi, divieti, pene sempre più severe; o sul divieto di uso dei cellulari, che pare francamente fantascientifico, vista la situazione attuale. E concentriamoci sugli aspetti educativi evocati da questo ipotetico decreto.

Vediamo che lo Stato, che contribuisce in ogni modo all’attuale modello sociale, si propone di «rieducare» (non suscita un brivido questa parola?) i ragazzi dal punto di vista civico e sociale. Evidentemente ci troveremo di fronte a un esperimento di cura omeopatica. Invece di smettere di minare e di cominciare a rafforzare il ruolo educativo della famiglia («È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli», articolo 30 della Costituzione), in barba al principio di sussidiarietà, lo Stato si arroga il compito di educare (anzi: rieducare!) i ragazzi. E cosa fa ritenere l’estensore del decreto, che un dipendente pubblico sia in grado, abbia i mezzi, le competenze e la capacità di educare i ragazzi (e non aggiungiamo «meglio dei suoi genitori»)? Un titolo di studio? Si da per scontato che i genitori siano analfabeti non scolarizzati? Si da per scontato che il titolo di studio equivalga a una abilitazione educativa? E non è finita! Con questo decreto lo Stato priva la famiglia dei suoi diritti educativi, ma minaccia di punirla perché non ha assolto ai suoi obblighi educativi!

C’è dell’altro: la punizione con la reclusione fino a due anni (!) per i genitori se il ragazzo non assolve l’obbligo (aridaje…) scolastico, sul quale ci sarebbe molto da dire. Questo punto del decreto implica, potenzialmente, parecchie cose. Implica, ad esempio, che i membri delle baby-gang non vadano a scuola. È così? Tutti o la maggior parte dei ragazzi coinvolti in reati gravi non assolvono l’obbligo scolastico? Ho i miei dubbi, ma sono pronto a ricredermi se qualcuno fosse in grado di dimostrarlo. Altra implicazione è la seguente: la scuola ha un ruolo preventivo nei confronti della devianza minorile. È dimostrata, questa efficacia preventiva? Perché questa norma appare, dal punto di vista razionale, così bislacca da indurci a pensare che forse serve ad altro. E a cosa potrebbe servire una norma che, con la scusa di prevenire la devianza minorile, terrorizzi i genitori sull’obbligo scolastico? Ad esempio, a marchiare di illegalità e di pericolosità sociale l’home schooling; un fenomeno che, negli ultimi anni, tra gender e vaccinazioni coatte, sta suscitando parecchio interesse. Potrebbe quindi essere un modo per evitare che i genitori sottraggano i propri figli alla «scuola prussiana» obbligatoria e «gratuita» (per modo di dire).

Insomma: vediamo cosa ne sarà di questo decreto nel passaggio parlamentare. Nel frattempo, però, i dubbi si fanno sempre più pressanti: siamo sovrani o sudditi? Il ruolo educativo spetta alla famiglia o allo Stato? Per la famiglia è un diritto o un dovere? Ai posteri l’ardue sentenze.
 



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