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Autonomia e premierato restano riforme nel libro dei sogni

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Si torna a parlare di riforma del premierato ed è subito polemica. A parole il centrodestra vuole fare le riforme, ma nella pratica non ha la compattezza per portarle avanti e per parare i colpi delle opposizioni. Neppure in questa legislatura le riforme si faranno. 

Politica 28_05_2024

Un mese fa Fratelli d’Italia e Lega litigavano su quale delle due riforme, premierato e autonomia differenziata, dovesse avere la precedenza nei lavori parlamentari. Si sa che i meloniani premono per il premierato e il principale cavallo di battaglia del Carroccio rimane l’autonomia differenziata. In vista del voto europeo, entrambi puntano a massimizzare i consensi e dunque poter esibire in campagna elettorale i due “trofei” potrebbe tornare utile.

Ma oggi il percorso di queste due riforme pare essersi nuovamente arenato. Il premierato è una novità di questa legislatura perché fino a quando Fratelli d’Italia era all’opposizione non era immaginabile che potesse essere calendarizzato ed entrare a pieno titolo tra le priorità. L’autonomia differenziata, invece, è in discussione da molti anni. La Lega aveva preso l’impegno con i suoi elettori di portarla avanti e di farla approvare in tempi rapidi, ma evidentemente il gioco dei veti incrociati tra gli alleati di governo sta producendo un nuovo stallo su entrambi i fronti.

Giorgia Meloni nelle ultime ore ha anche dovuto alzare la voce sul premierato, indicandolo come uno snodo fondamentale dell’azione di governo e sembra essere caduta nello stesso tranello in cui cadde Matteo Renzi in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. L’allora premier annunciò che se avesse perso il referendum si sarebbe dimesso da Palazzo Chigi e avrebbe lasciato la politica. Perse, si dimise ma, come si può constatare, è rimasto in politica eccome. Giorgia Meloni, prima di fare marcia indietro domenica pomeriggio a “Mezz’ora” (Rai 3, Monica Maggioni), aveva dichiarato che senza premierato, che lei considera “la madre di tutte le riforme”, non sarebbe rimasta un minuto di più a Palazzo Chigi. “O la va o la spacca. Nessuno mi chieda di salvare la sedia o di restare qui a sopravvivere”, aveva dichiarato. Poi, come detto, ha minimizzato e rettificato perché qualcuno le avrà fatto notare che sarebbe stato un suicidio politico personalizzare il referendum. In tal caso, infatti, sarebbero stati gli elettori a decretare la fine della sua esperienza politica ove avessero votato contro il premierato. Un azzardo lanciare queste sfide? Al momento sembra di no perché Meloni appare solida e senza avversari politici. Ma il referendum non è oggi. Di qui alla consultazione popolare ne può passare di acqua sotto i ponti e quindi gli umori dell’opinione pubblica possono cambiare e determinare un voto sfavorevole al premier che, al di là del dietrofront successivo, ha pensato bene di personalizzare la riforma del premierato e di trasformare il referendum su quella novità costituzionale in un referendum su di lei.

La riforma del premierato viene osteggiata dal Quirinale, che vede in pericolo i suoi poteri, e suscita perplessità in molti ambienti della stessa maggioranza. Ancora più controversa è la riforma dell’autonomia differenziata, che la Lega considera imprescindibile per la sua permanenza al governo ma Fratelli d’Italia guarda con freddezza. Il calcolo politico dei meloniani è molto semplice: approvare l’autonomia differenziata significherebbe scontentare parte dell’elettorato meridionale e consentire alla Lega di riprendere fiato nelle sue roccaforti del nord, dove ultimamente ha perso voti. Meglio, quindi, portarla per le lunghe e far crescere il malcontento nella base leghista.

Si comprende, quindi, che a parole il centrodestra vuole fare le riforme, ma nella pratica non ha la compattezza e la convinzione necessarie per portarle avanti e per parare i colpi delle opposizioni. Non si tratta, peraltro, delle opposizioni politiche ma di altre forze che remano contro. Si è detto del Quirinale. Ma in verità il potere più insidioso per la navigazione delle riforme rimane quello giudiziario. Molte procure in Liguria, in Sicilia, in Puglia si stanno risvegliando con inchieste che toccano trasversalmente la politica e ne appannano l’immagine. L’effetto di tali azioni giudiziarie, al di là dello screditamento della classe dirigente, è quello dell’indebolimento di ogni prospettiva di riforma. Quando la politica, infatti, viene incalzata dalla magistratura, perde autorevolezza e gestisce a malapena l’ordinario, senza riuscire a pianificare traguardi di ampia portata come le riforme.

Ecco perché la netta sensazione è che neppure in questa legislatura le riforme si faranno. L’Italia continuerà a navigare a vista e si perderà l’occasione di un quadro politico tutto sommato stabile per poter rendere più efficiente la macchina statale. Tra le riforme che si impantaneranno ci sarà anche quella della giustizia, perché le inchieste di alcune procure trasmetteranno all’opinione pubblica la sensazione di un governo che vuole vendicarsi nei confronti dei giudici. Si dirà che l’esecutivo vuole impedire ai giudici di indagare e, conseguentemente, tutto si fermerà ancora una volta, facendo perdere al Paese l’ennesima occasione per voltare pagina e modernizzarsi.