Assist della Consulta a utero in affitto per le coppie gay
La Corte Costituzionale ha emesso un'ordinanza che lascia intravedere un assist a favore dell'utero in affitto. Una donna canadese ha portato in grembo un bambino per una coppia italiana di uomini che ora vogliono essere riconosciuti entrambi come genitori. La donna chiede di intervenire nel processo davanti alla Consulta, ma quest'ultima ha rigettato la richiesta perché lei non avrebbe un interesse specifico nella vicenda. Proprio come per i sostenitori della maternità surrogata: una volta che la gestante ha concluso il suo compito può farsi da parte.
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La Corte costituzionale si sta assestando sempre più su posizioni filo-gay. A darne prova è un’ordinanza emessa ieri dalla Consulta il cui contenuto è stato reso noto tramite un comunicato stampa (il deposito con le motivazioni avverrà nelle prossime settimane).
Procediamo con ordine. Una coppia omosessuale si unisce civilmente e poi vola in Canada: affitta l’utero di una donna, compra l’ovocita di un’altra donna e lo fa fecondare con il seme di uno dei due uomini. Per l’ordinamento giuridico canadese quel bambino è figlio legittimo di entrambi gli uomini, sia del padre biologico che del compagno, per il nostro di ordinamento invece l’unico genitore riconoscibile è il padre naturale.
Ecco allora che la coppia, tornata in Italia, chiede al comune di Verona di riconoscere la doppia genitorialità. L’anagrafe giustamente si rifiuta perché per il nostro ordinamento giuridico i genitori di un bambino possono essere solo di sesso differente. Il passo successivo è stato il ricorso alla Corte di Appello di Venezia: qui i giudici danno ragione alla coppia. Si oppongono però alla decisione il sindaco di Verona e il Ministero dell’Interno. Gli atti finiscono quindi presso la Corte di Cassazione. Questa blocca il procedimento sollevando una eccezione di incostituzionalità in merito a quella parte di disciplina normativa che vieta nel nostro Paese l’omogenitorialità (divieto, peraltro, non rispettato da moltissimi giudici: vedi plurime sentenze riguardo alla stepchild adoption).
Arriviamo all’ordinanza di ieri della Consulta che non riguarda il merito della vicenda, ma un aspetto procedurale che però ha interessanti risvolti sostanziali. La donna che ha fornito l’utero vorrebbe essere ascoltata dalla Corte costituzionale «sostenendo – così si legge nel comunicato della Consulta – di avere uno specifico interesse a che sia riconosciuta, anche nel nostro ordinamento, la sua assenza di legami genitoriali con il bambino, e conseguentemente l’inesistenza di ogni suo obbligo nei confronti dello stesso». In breve, la donna teme che il processo nel nostro Paese faccia emergere alcuni doveri giuridici suoi nei confronti del bambino, doveri inesistenti sul suolo canadese.
Cosa ha deciso la Consulta riguardo alla partecipazione della donna nel processo davanti ai giudici della Consulta medesima? La richiesta è stata respinta con queste motivazioni: «Nel giudizio costituzionale possono infatti intervenire, oltre a chi sia già parte del giudizio a quo e al Presidente del Consiglio dei ministri, soltanto coloro che siano “titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio” (articolo 4, comma 7, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale). Nel caso in esame, la Consulta ha ritenuto che la decisione del giudizio pendente di fronte alla Corte di cassazione – che ha ad oggetto unicamente la posizione giuridica dei due uomini verso il bambino – non possa produrre effetti giuridici immediati nei confronti della donna».
Dunque, nel giudizio davanti alla Consulta possono intervenire tre soggetti: le parti nel processo davanti alla Corte di Cassazione, il Presidente del Consiglio e chi è portatore di un interesse diretto nella vicenda. Ora, la donna non è parte del processo in Cassazione, né è, con piena evidenza, Presidente del Consiglio, inoltre, secondo i giudici della Consulta, non può vantare nemmeno un interesse diretto alla vicenda giudiziaria che si sta svolgendo in Cassazione. Per sostenerlo i magistrati affermano che la decisione degli ermellini di certo non interesserà la donna, dato che l’oggetto del processo è il riconoscimento della doppia paternità.
Ma qui c’è un doppio inciampo. Primo: forse che la Corte costituzionale ha la sfera di cristallo per sapere cosa diranno i giudici di Cassazione? Vero è che il quid su cui decidere è la genitorialità del compagno del padre biologico, ma negli anni la Cassazione ha dato ampie prove di discettare di molto altro rispetto ai quesiti avanzati dalle parti. In secondo luogo la norma richiamata dalla stessa Consulta, al fine di valutare il reale interesse di un soggetto che vuole entrare in un processo davanti alla stessa, non fa riferimento alcuno alla sentenza. Il riferimento è de facto, non de iure, ossia si chiede che ci sia, di fatto, un reale, seppur qualificato e diretto interesse nella vicenda. E colei che ha partorito il bebè avrà pure un suo interesse quando si parla di riconoscimento di genitorialità di un bambino che ha portato in grembo per novi mesi? Certo che sì.
Ma, al di là di tali questioni prettamente giuridiche, arriviamo forse al punto concettuale più saliente di questa ordinanza. Per la Consulta colei che partorisce un bambino per una coppia omosessuale non deve più metter becco nelle loro faccende. Vero è che questa donna non è la vera madre biologica, infatti non ha fornito l’ovocita, ma la decisione dei giudici di escludere radicalmente la sua figura da un procedimento che trova la sua genesi e la sua ragion d’essere nella pratica della maternità surrogata adombra il fondato sospetto che la medesima decisione debba essere letta come un atteggiamento di indiscusso favore verso le istanze gay (sottolineiamo: non verso le istanze di questa precisa coppia omosessuale veneta, ma verso i più generici desiderata di tutto il mondo arcobaleno).
Tra le righe possiamo addirittura intravedere un favor verso la pratica della maternità surrogata. Infatti per i sostenitori di questa pratica la gestante è solo una erogatrice di un servizio. Decidere di escludere la gestante dal procedimento potrebbe essere l’effetto di aver recepito questa mentalità, tutta concentrata sugli interessi della coppia richiedente. E dunque la donna che ha prestato l’utero ha terminato il suo compito: si faccia allora da parte, si defili anche nel caso in cui, come il presente, volesse solo chiedere che nessun obbligo la debba vincolare al bambino.
Perciò pare proprio che le uniche cose che premano ai giudici siano la coppia omosessuale e le sue rivendicazioni. Tutti gli altri attori – bambino compreso? – possono pure uscire di scena.