CRISI
Arabia Saudita, la protesta tocca le nostre tasche
Non si parla di rivoluzione, ma basta qualche sussulto per spingere in alto il prezzo del petrolio. Senza dimenticare la forte rivalità con l'Iran.
Attualità
14_03_2011
In Arabia Saudita non ci sarà nessuna rivoluzione in stile tunisino o egiziano, tanto meno una guerra civile come in Libia; ma basterà qualche sussulto per spingere ancora più in alto il prezzo del barile e mettere in difficoltà non la casa regnante saudita, ma la ripresa economica mondiale. Il mix formato dalla frustratissima minoranza sciita presente nel sud-est del paese, il carattere ultraconservatore del sistema politico e la speculazione finanziaria mondiale scatenata possono produrre tale risultato.
Il fallimento della “giornata della rabbia” convocata l'11 marzo dalle opposizioni e disertata in tutto il regno tranne che nella provincia orientale, dove si concentrano gli sciiti. Di questi tempi, anche un paese arabo che sta seduto sopra 440 miliardi di dollari di riserve valutarie, come è il caso dell'Arabia Saudita, potrebbe ritrovarsi nei guai: la Libia ne aveva, prima della crisi, 110 per una popolazione che è meno di un quarto di quella saudita, e guardate cosa è successo. Fra l'altro la mancanza di libertà politica è paragonabile a quella che caratterizza il paese di Gheddafi: vietati i partiti politici e qualunque altra organizzazione di massa, vietate le manifestazioni di piazza, costituzione inesistente, niente parlamento e tutti i posti di comando distribuiti fra gli 8 mila principi imparentati con la famiglia reale, a capo della quale c'è un monarca assoluto: l'87enne Abdullah.
Eppure le strade di Riyadh, Jedda, La Mecca, ecc. continuano a restare tranquille a differenza di quelle vicine di Sanaa e Manama, e di quelle più lontane del Cairo, di Tunisi e di Algeri. Per più di una ragione.
Intanto Abdullah, come tutti gli altri autocrati della regione che potevano permetterselo, alla fine di febbraio ha generosamente allentato i cordoni della borsa al ritorno dalla sua convalescenza di due mesi in Marocco dopo un intervento chirurgico a New York. Sui suoi sudditi sono piovuti 36 miliardi di dollari sotto forma di sussidi di disoccupazione (il 40 per cento dei giovani fra i 15 e i 24 anni non hanno lavoro), aumenti salariali per i dipendenti pubblici, sovvenzioni per chi paga mutui per la casa, rimborsi per spese scolastiche e universitarie, ecc. Poi c'è da considerare la natura politicamente e socialmente conservatrice della grande maggioranza dei sauditi. Basti pensare che i poco conosciuti promotori della protesta hanno scelto per chiamare a raccolta l'opposizione la data dell'11 marzo per il suo contenuto simbolico: in quello stesso giorno del 2002 quindici ragazze erano state costrette a morire fra le fiamme della loro scuola femminile alla Mecca andata a fuoco, perché agenti della Mutawwa, la temuta polizia religiosa wahabita, le avevano respinte dentro all'edificio a causa del fatto che non avevano su di sé l'hijab, il velo islamico.
I cittadini a quanto pare non si sono troppo commossi al ricordo, anche perché il Consiglio superiore degli ulema, la più alta istituzione religiosa del paese, aveva diffidato i veri musulmani dal partecipare alle manifestazioni, che avrebbe costituito una violazione della sharia. Il fatto è che la grande maggioranza dei sauditi amano sinceramente il loro re, e semmai sono preoccupati per la successione, essendo i fratelli di Abdullah potenziali eredi al trono – l'83enne principe Sultan e, in caso di sua defaillance, il 77enne principe Nayef - meno popolari e meno in buona salute del sovrano. E infatti nemmeno gli oppositori attuali mettono in discussione il diritto della casa Saud a continuare a governare sui luoghi santi dell'islam e sul petrolio della penisola arabica; tutto ciò che chiedono è l'avvento di una monarchia costituzionale, la creazione di una sorta di parlamento e uno svecchiamento del governo: attualmente l'età media dei ministri è di 65 anni, e alcuni di essi passano più tempo in ospedale che nella sede del loro ministero. È certo che su nessuno di questi punti avranno soddisfazione.
L'unica area del paese dove la “giornata della rabbia” ha avuto un certo successo è la provincia orientale, dove centinaia di persone nelle città di Hofuf, Awwamiya e Qatif si sono riunite soprattutto per chiedere il rilascio di alcuni detenuti. Si tratta della regione dove si concentra la minoranza sciita, che complessivamente ammonta al 10 per cento di tutta la popolazione saudita. Saggiamente le autorità alla vigilia della giornata avevano rilasciato alcuni manifestanti sciiti arrestati nel corso di precedenti proteste, compreso un noto imam che si era associato alle richieste di monarchia costituzionale. Tuttavia in carcere languono alcuni esponenti sciiti arrestati quindici anni fa e mai processati; la differenza di trattamento con gli estremisti sunniti aderenti ad Al Qaeda e ad altri gruppi, che le autorità si sono preoccupate di rieducare e reinserire nella società, è evidente.
La provincia orientale è sede di alcuni dei più importanti giacimenti petroliferi dell'Arabia Saudita ed è popolata da una minoranza religiosa che si considera discriminata e che condivide la fede dei governanti del paese più ostile ai sauditi: la vicina Repubblica islamica dell'Iran. È questo che rende la situazione potenzialmente critica, e che determina l'aumento del prezzo mondiale del barile di petrolio ogni qual volta giungono notizie di proteste e arresti. Prima della crisi finanziaria globale esplosa nel secondo semestre del 2008, la speculazione intorno al petrolio da parte degli operatori non commerciali (hedge funds, fondi specializzati in materie prime, desk finanziari di banche d'affari e commerciali, brokers, pool di traders che possono “scommettere” milioni di euro entrando e uscendo per poche ore nel mercato) era arrivata a toccare i 400 miliardi di dollari; con la crisi si era scesi a poche decine di miliardi, fino alla fine del 2010. Adesso, con la volatilità dei prezzi dovuti alla ripresa della domanda e all'incertezza sulla crisi nel mondo arabo, siamo tornati a 300 miliardi circa di capitali speculativi quotidianamente in azione.
L'Arabia Saudita è l'unico paese in grado di fornire immediatamente al mercato petrolio supplementare quando si arresta il flusso di qualche altro esportatore importante, come nel caso della Libia. Ma se anche la certezza saudita può essere messa in dubbio, gli effetti sulle tasche di noi tutti e sulle prospettive di ripresa della crescita economica non potranno che essere negativi assai.