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CONTINENTE NERO

Africa, il lavoro minorile è parte del retaggio tribale

Al lavoro, per strada, in armi. Milioni di bambini in Africa non vanno a scuola. Lavorano, combattono arruolati da gruppi armati antigovernativi e jihadisti o trascorrono il tempo per strada, con attività illegali e accattonaggio. È l'unico continente in cui non si fanno progressi per contenere questa piaga, parte integrante del tribalismo

Famiglia 18_07_2020
Africa, bambini al lavoro

Al lavoro, per strada, in armi... milioni di bambini in Africa non vanno a scuola. Lavorano, combattono arruolati da gruppi armati antigovernativi e jihadisti o trascorrono il tempo per strada, rimediando da vivere con attività illegali e accattonaggio. Secondo l’ultimo rapporto sul lavoro minorile pubblicato il 12 giugno scorso dall’Organizzazione internazionale del lavoro i minori africani che lavorano sono almeno 72,1 milioni (su un totale mondiale di 153 milioni): 61,4 milioni, pari all’85%, sono occupati nel settore agricolo, 8,1 milioni, pari all’11%, nel settore dei servizi e 2,7 milioni, il 4%, nell’industria. 31,5 milioni svolgono attività pericolose. Nella sola Repubblica democratica del Congo si stima che nelle miniere di cobalto lavorino circa 40.000 minori. Ogni anno ne muoiono decine (secondo l’Onu, in media 80), ma molti decessi non vengono registrati, i corpi sono sepolti sotto le macerie delle gallerie crollate. Tanti contraggono malattie croniche o sono vittime di incidenti sul lavoro invalidanti. Ragazzine anche di dieci anni soltanto subiscono violenze sessuali e restano incinte. Nelle miniere di cobalto del Katanga risulta che lavorino persino bambini di quattro anni.  

Mentre nel resto del mondo si registrano discreti progressi, in Africa da anni il contrasto al lavoro minorile non produce risultati. Adesso la pandemia COVID-19 sembra stia peggiorando ulteriormente la situazione. Sui mercati internazionali la richiesta di metalli e minerali è diminuita facendo crollare gli introiti dei minatori e si prevede che, come è successo in occasione di altre crisi, aumenti il numero dei genitori che tolgono i figli da scuola per mandarli a lavorare nelle miniere. In Congo, ad esempio, le esportazioni di cobalto sono scese del 15,2% nel primo quarto del 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

In altri paesi africani le famiglie non permettono ai figli di continuare gli studi perché decidono di farli emigrare irregolarmente affidandoli alle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico clandestino di emigranti. Sono i minori non accompagnati che a partire dal 2015 hanno raggiunto a decine di migliaia le coste europee attraversando il Mediterraneo. Altrettanti sono quelli che i genitori scelgono di mandare a lavorare in Medio Oriente. Dal Corno d’Africa ogni anno decine di migliaia di persone cercano di raggiungere i paesi del Golfo passando per lo Yemen, nonostante la guerra civile che si combatte nel paese dal 2015. Moltissimi sono minorenni, convinti o costretti dalle famiglie a percorrere una delle rotte migratorie irregolari più pericolose del mondo. In Etiopia molte scuole elementari e medie hanno avviato campagne di sensibilizzazione per indurre i genitori a desistere da progetti tanto irresponsabili e, se proprio sono determinati a farli lavorare all’estero, almeno seguire vie legali di emigrazione e orientarsi su paesi con i quali l’Etiopia ha stipulato accordi bilaterali. La chiusura delle scuole a causa della pandemia ha interrotto queste iniziative.

Per spiegare il fenomeno così diffuso in Africa del lavoro minorile, spesso infantile, si dà la colpa alla povertà, si parla di sfruttamento da parte di imprese multinazionali avide di profitto, si accusa l’Occidente di non intervenire per mettere fine alle intollerabili violazioni dei diritti dei minori. Ma vuol dire non andare alla radice del problema che è il lascito delle società tribali, la posizione dei bambini nella loro struttura sociale tradizionale: figli voluti a tutti i costi per assolvere al dovere sacro di non interrompere il proprio lignaggio, ogni generazione necessaria alla sopravvivenza di quella precedente, eppure, così come le donne, del tutto subalterni nella gerarchia sociale. Fino a una certa età erano addirittura considerati creature pre-sociali, in attesa di essere inserite nelle rispettive posizioni all’interno della comunità famigliare, come prova il fatto che presso molte tribù, ad esempio i Giriama del Kenya, i figli morti prima di ricevere il nome di famiglia che li consacrava membri definitivi della comunità si seppellivano senza cerimonie, senza funerale, senza neanche segnare il luogo della sepoltura. Di loro non restava memoria, come se non fossero mai esistiti, il nome che non avevano ricevuto andava a un fratello nato in seguito. Eppure erano bambini che avevano già aiutato la famiglia: al fianco delle donne le femmine, con gli uomini i maschi, destinati a subentrare quanto prima al padre ansioso di meritare lo status di “anziano” e con esso il diritto a non lavorare: uno status sociale solo maschile, svincolato dall’età biologica,  che ogni capofamiglia acquisiva, facendone vanto e ricavandone onore, quando il primo figlio maschio era in grado di sostituirlo del tutto nelle attività lavorative, seguito poi dagli altri.

I colonizzatori arabo-islamici condividevano questo atteggiamento nei confronti dei figli. Solo gli amministratori coloniali e i missionari europei hanno cercato di convincere gli africani a rispettare l’infanzia, i capifamiglia a rimandare l’ambito status di “anziano” per consentire ai figli di maturare fisicamente e intellettualmente rinunciando a considerarli risorse da usare appena possibile. Era un cambiamento radicale ed è rimasto incompiuto. Per questo tanti africani continuano a far lavorare i figli fin da bambini e a far sposare le figlie appena raggiunta l’adolescenza.