A Spoleto, il nuovo antico di Adriano Pompa
Figlio perfetto dell'Occidente, classe 1965, è in controtendenza: rimanda
al Medioevo, al gotico e si ferma col Seicento. Cavalier, armi e amori. Belli.
Il 10 luglio si è concluso il 54° Festival dei Due Mondi di Spoleto, raffinato contenitore culturale che, a cavallo tra fine giugno e inizio luglio di ogni anno, persegue lo scopo di ritrarre il volto dell’espressione artistica a tutto tondo, con concerti, mostre, balletti, spettacoli e opere teatrali, letture recitate ed altro ancora. Un Festival che, orfano da quattro anni del suo fondatore Gian Carlo Menotti, offre un menù ricchissimo di eventi che da una parte guardano al passato e dall’altro offrono prospettive sulle nuove forme espressive proprie della contemporaneità.
A volte questi due ingredienti - il nuovo e l’antico - si fondono con efficacia. Ci vogliamo qui soffermare su un solo piatto che lo chef Giorgio Ferrara, Direttore artistico del Festival, ha cucinato per gli avventori della città spoletina, avventori tra cui vi era anche lo scrivente. Ci riferiamo alle opere dell’artista Adriano Pompa, inserite nella Sezione Arte da Vittorio Sgarbi, curatore della stessa.
Adriano Pompa, leva 1965, è un uomo che vive nel nostro tempo ma che non appartiene al nostro tempo per molti motivi. Innanzitutto per i soggetti delle sue tele o delle sue sculture: cavalieri medioevali, battaglie di altri tempi, corazze e lance, mostri e gargoyle, paesaggi descritti con perizia maniacale, soggetti epici come San Giorgio e il drago. «Pompa - appunta Raffaele De Grada – ci racconta gli exploits di mostruosi cavalieri inseriti in cavalli dai grossi occhi di polipo e sorvegliati da corazze ed elmi di fascinosa potenza».
Poi per le tecniche usate e fatte proprie con acquisito virtuosismo formale: oltre a pennelli e colori, la lamina d'oro, il bulino o la punta secca. In questo Pompa è assolutamente controcorrente perché oggi si sa l’arte contemporanea è facile da farsi (basta una secchiata di vernice contro un tela) e difficile da comprendere, a differenza di quella precedente che agli occhi e alle orecchie dei fruitori celava nella sua semplicità gli artifizi impervi per distillare simile agevole godibilità.
Infine, ed è quello che più conta, per le modalità espressive che senza tema di smentita rimandano al Medioevo e poi su su al gotico internazionale, al Quattrocento (Paolo Uccello di certo) per poi arrestarsi al Rinascimento-Seicento. In modo molto semplice, quasi semplicistico, potremmo dire che l’artista romano rielabora il passato in chiave moderna e personale. Non rifiuta il naturalismo né il realismo e quindi non sfocia né nell’espressionismo, né nell’astrattismo (non che questo sia sempre un peccato mortale. Per capirlo basta recarsi al Complesso Museale di San Francesco di Spoleto dove espone, all’interno della mostra “Coincidentia oppositorum” indetta dal Festival, il poeticissimo Bruno Marcelloni). In molte opere Pompa è figurativista ma sui generis perchè onirico – meglio – fantastico, sicuramente surreale ma non per questo in opposizione al reale dato che trascende il dato empirico nell’immaginifico. Sogni che diventano segni.
Ecco allora l’evocazione di battaglie quattrocentesche con cavalieri simili a cyborg; la raffigurazione di paesaggi italiani che, attraverso vedute a volo di uccello, sono mosaici di terre, alcuni così sinuosi nella loro rappresentazione che terminano con una testa di serpente; personificazioni di virtù e vizi dai tratti umanoidi che così tante volte, nella loro matrice originale, abbiamo ammirato nelle sale del buon governo di molti dei nostri italici borghi; motivi arcaici e simbolici come il serpente, l'uccello, l'aquila, il leopardo, l’upupa, attinti dai bestiari medioevali; miti, epos e leggende da Orlando furioso però infarcite di bizzarre macchine leonardesche.
Le opere di Pompa allora si inseriscono appieno nella tradizione artistica occidentale. Infatti il tradere è la trasmissione del passato ma innovandolo secondo le cifre stilistiche e della sensibilità odierna, innervandolo della linfa feconda della propria originalità artistica. Una elaborazione attualizzata della memoria potremmo dire (Proust docet). Scrive Sgarbi a tal proposito che Pompa «sta ininterrottamente nel suo studio, tormentando tele con ori e colori per fermare la memoria di eroi e draghi per un mito che non può finire».
La tradizione è dunque aggiungere un anello nuovo di una catena che si allunga nel tempo, ma saldamente congiunto a quello precedente, senza salti e senza cesure. Pompa riesce in questo sia perché nelle sue opere c’è una storia da leggere, c’è quindi un senso: egli è, con acume dotto ed educato, narratore di “favole atemporali” (Roberto de Feo), seppur si astenga da ogni banale citazionismo e intento didascalisco. Lontano quindi, grazie alla ricchezza di contenuti espressivi delle sue opere, dall’indecifrabile nonsense di tanta “arte” contemporanea. Sia per l’ordine, l’armonia tra le parti, l’unità formale e il fine estetico che dominano le sue composizioni. Sia per la sua vicenda personale: egli andò, come fecero tanti artisti del passato, a bottega dal padre Gaetano il quale gli trasmise - ecco di nuovo l’importanza della tradizione - i trucchi del mestiere e buona parte della sua estetica formale.
Allora le creazioni di questo artista, frutto di cesello inesausto e di tecniche apprese con il sudore della fronte, stanno a testimoniare che anche oggi si può dire qualcosa di bello e insieme di contemporaneo. Di elevato e di godibile. Insomma, grazie a Pompa, ma non solo a lui, possiamo chiosare così: c’è qualcosa di nuovo oggi a Spoleto anzi di antico.