2030, l'anno in cui spariranno i matrimoni religiosi
In Italia, dal 1963 abbiamo perso circa 6.000 matrimoni religiosi all’anno, se andiamo avanti così fra circa 15 anni non ci saranno più matrimoni religiosi. Le causa? La secolarizzazione, certo, ma pure la Chiesa e i sacerdoti hanno grandi colpe. Lo dice don Renzo Bonetti, consultore del Pontificio Consiglio per la Famiglia.
Dal 1995 al 2002 è stato Direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia della Cei, dal 2003 al 2009 Consultore del Pontificio Consiglio per la Famiglia, da sempre si occupa “sul campo” di pastorale familiare. È don Renzo Bonetti, oggi presidente della Fondazione Famiglia Dono Grande. Poco prima del Sinodo di ottobre è stato tra i firmatari di una lettera (Commitment to marriage) che alcune personalità di varie nazioni hanno firmato, rivolgendosi ai padri sinodali. Ha tutte le carte in regola per fare due chiacchiere sui temi del Sinodo.
Don Renzo in Italia, secondo le statistiche, dal 1963 abbiamo perso circa 6.000 matrimoni religiosi all’anno, se andiamo avanti così fra circa 15 anni non ci saranno più matrimoni religiosi. Come può esserci Chiesa senza famiglia?
«Spesso diamo la colpa al “mondo”, ma raramente ci poniamo la domanda se noi come Chiesa siamo stati capaci di insegnare la bellezza della realtà della coppia e della sessualità. I vescovi italiani, con un documento del 1975, proponevano una profonda revisione dei corsi in preparazione al matrimonio e additavano il Sacramento come fonte di bellezza, di santificazione, di impegno pastorale. Se allora quello fu uno snodo importante, dobbiamo purtroppo constatare che a tutt’oggi, a 40 anni di distanza, si ripropongono più o meno quegli stessi corsi. Forse non abbiamo saputo correre e percorrere fino in fondo quelle intuizioni. Forse perché occupati troppo in altre cose. Ma così facendo non abbiamo saputo mettere al centro la famiglia e ora che ne veniamo privati ci rendiamo conto che non possiamo permettercelo, perché senza famiglia non comprendiamo la Chiesa. Come affermava san Giovanni Paolo II al n°19 della Lettera alle famiglie, «non si può comprendere la Chiesa come Corpo mistico di Cristo, come segno dell'Alleanza dell'uomo con Dio in Cristo, come sacramento universale di salvezza, senza riferirsi al grande mistero, congiunto alla creazione dell'uomo maschio e femmina ed alla vocazione di entrambi all'amore coniugale, alla paternità e alla maternità. Non esiste il grande mistero, che è la Chiesa e l'umanità in Cristo, senza il grande mistero espresso nell'essere “una sola carne”, cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia».
Purtroppo oggi gli uomini e le donne faticano a interpretare questo “grande mistero”...
«In un certo senso dobbiamo chiederci se le nostre coppie di sposi non siano troppo trascinate dalla corrente culturale dominante. Ma dobbiamo domandarci anche se nei nostri percorsi per gli sposi sappiamo mostrare come la croce fa parte della luce, come la croce fa parte dell’amore, della grandezza dell’amore. Noi stessi, operatori di pastorale familiare, spesso abbiamo staccato amore da sofferenza, amore da croce (dono voluto, scelto, totale), amore da “passione” e quindi non possiamo pensare che i nostri cristiani possano essere testimoni, perché non sanno leggere le fatiche della vita di coppia e di famiglia alla luce della croce. Occorre formare un “minimo” di coscienza sacramentale, attraverso una pastorale che sia anche formazione spirituale, cioè di una vita secondo lo Spirito, degli sposi cristiani. Di uno Spirito non disincarnato, ma che fa brillare la bellezza di coppia».
Prima del Sinodo, insieme ad altri intellettuali, ha firmato una lettera pubblica (Commitment to marriage). Si facevano 9 proposte per una rinnovata pastorale familiare. Quale ritiene sia la più essenziale e perché?
«Dei 9 punti indicati in quella lettera, i quali hanno tutti una loro preziosità, ritengo sia fondamentale per il futuro quello relativo alla formazione dei sacerdoti, non soltanto in riferimento alle omelie, ma per il loro modo di vivere accanto agli sposi. Abbiamo bisogno di sacerdoti che facciano da guida spirituale agli sposi, che preparino i fidanzati accompagnandoli al sacramento. Abbiamo bisogno di sacerdoti che sappiano che il loro non è un sacramento “solitario” per la Chiesa e per il mondo, bensì è un sacramento che va vissuto in comunione con un altro sacramento, quello delle nozze. Due sono i sacramenti per la missione, questo viene troppo spesso dimenticato! (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1533, 1534, 1535). Mi domando: come e quando noi prepariamo i fidanzati ad essere a servizio della Chiesa e della società? A meno che non intendiamo che a servizio della Chiesa significhi soltanto fare attività parrocchiale. Viceversa, “a servizio della Chiesa e della società” trova il suo fondamento e la sua possibilità nel sacramento del matrimonio. Noi abbiamo perso la dignità sacramentale degli sposi e abbiamo ridotto il matrimonio a una pura benedizione! Gli sposi sono moltiplicatori della missione, sono le venature, i vasi capillari della missione della Chiesa, perché sono collocati sulle strade, nei luoghi di lavoro, di svago, nelle abitazioni …»
Tutti parlano di crisi della famiglia, pochi di crisi del fidanzamento
«Credo che uno degli elementi che andrebbe affrontato relativamente alla crisi della famiglia, sia proprio la crisi del fidanzamento, per come è vissuto, per i criteri con cui i fidanzati si scelgono, per le modalità con cui si preparano e per gli obiettivi che si propongono, per i tempi (talora troppo prolungati, altre troppo brevi) di attesa prima del matrimonio. In questo senso c’è una crisi del fidanzamento. Mi permetto di richiamare che probabilmente c’è una crisi ancor prima del fidanzamento. Perché è più comunicata e insegnata la capacità di ricevere amore, piuttosto che a dare amore. Abbiamo generato “spugne” di amore gigantesche, nei nostri bambini, nei nostri ragazzi, nei nostri adolescenti, sempre alla ricerca di essere amati. Li abbiamo abituati da piccoli a essere coperti di un affetto fuori misura, coperti di peluche senza fine, di giocattoli, di risposte alle loro esigenze. Non che questo sia sbagliato, ma non abbiamo altrettanto insegnato a “dare”, a fare un sorriso a chi piange, un regalo a chi non ti regala niente. Non abbiamo insegnato a donare l'amore, ma quasi solo a cercare chi ci ama. Ma quando un fidanzamento è fondato, anche inconsciamente, sul “chi mi ama”, chi mi fa sentire l’amore, allora sostanzialmente il rapporto dura il tempo che a me “sembra che l’altro mi ami”. Il fidanzamento finisce per corrispondere al criterio del “mi trovo bene”, sto bene con quella persona. Non avendo alle spalle un’educazione all’amore rischiamo di avere un fidanzamento fragile».
Come aiutare i fidanzati?
«Come Chiesa raramente riusciamo a proporre criteri di discernimento adeguati per verificare se questo fidanzamento porti ad un matrimonio che possa accogliere, dirsi e darsi il “per sempre”. Per quanto conosco in nessun posto in Italia viene proposto un serio aiuto di discernimento e verifica circa l’idoneità umana reciproca: se quello è l’uomo della mia vita, se quella è la donna della mia vita, se io sono l’uomo/donna per lei/lui. Negli sposi non cerchiamo assolutamente se questo dato naturale esista, se può divenire sacramento. Questo perché abbiamo finito per scambiare la grazia del sacramento del matrimonio con un diritto del battezzato, abbiamo scambiato il dono con un diritto a ricevere il dono. Ma il sacramento del matrimonio è un dono al quale ci si deve predisporre, non è primariamente un diritto! Ritengo sarebbe molto utile che la Chiesa, possedendo già un iter per verificare la validità del sacramento, si dotasse anche di percorsi per questo discernimento previo al matrimonio stesso, come fa per il sacerdozio e la vita consacrata. A questo si dovrebbe poi affiancare l’altro elemento che è totalmente disatteso, ovvero il discernimento di carattere sacramentale. I due fidanzati sanno che con il sacramento del matrimonio diventeranno «segno visibile» di Cristo Gesù? La prova che un sacramento è celebrato bene è domandare ad una coppia neo sposata che esce dalla Chiesa che provi a spiegare il sacramento ricevuto e quale missione specifica ha iniziato con esso, per la Chiesa e per la società. Possiamo continuare ad avere sposati in Chiesa che non sanno spiegare cosa è in loro accaduto, che non sanno dire chi sono?»
Nel dibattito sinodale c’è un equilibrio da mantenere, quello tra dottrina e pastorale
«Quando si parla di questo rapporto tra dottrina e pastorale credo sia più corretto ricollocare questo argomento in ordine al matrimonio e alla famiglia dentro un orizzonte più ampio. Non è in discussione, anche se sembra che lo stiamo facendo, soltanto la pastorale del matrimonio e della famiglia. È in discussione il volto della Chiesa. Di questo dovremmo renderci conto perché, come ho detto precedentemente, la famiglia rivela il volto della Chiesa. La Chiesa è la presenza di Gesù, la Sua presenza viva nel mondo. Se ho presente questo dato delle fede allora troverò la strada per comporre dottrina e pastorale, partendo dal fatto che Gesù è vivo. I cristiani sono chiamati a dire che Gesù è vivo, che Gesù continua a vivere ed esprimersi in mezzo a noi, con la sua Parola, i suoi segni sacramentali, i suoi gesti di amore misericordioso. In questa ottica evangelica siamo chiamati a rivedere e rivitalizzare tutti i sacramenti. Noi stiamo mettendo in risalto la debolezza del matrimonio, ma non ci siamo accorti che sono fragili tutti i sacramenti? Pensiamo alla fragilità del battesimo, della confessione (sacramento quasi scomparso dalla vita cristiana), alla fragilità dell’Eucaristia (senza tanti giri di parole: oggi tutti fanno la comunione, confessati e non confessati). Il matrimonio si colloca in questa fragilità che è di tutti i sacramenti».
In che senso?
«Perché nel tempo abbiamo perso l’origine dei sacramenti, la fonte. Come Chiesa abbiamo perso, meglio, abbiamo una scarsa consapevolezza, che nei segni sacramentali è Gesù vivo che si dona, non è un ripetere umano semplicemente rituale. Solo nella misura in cui recuperiamo la fonte sacramentale, noi andremo a rivitalizzare i sacramenti. Ravvivare negli sposi la consapevolezza che Gesù è vivo e presente in mezzo a loro, significa ravvivare la consapevolezza che Gesù è presente nella Chiesa e che pone dei segni concreti come dono per le persone, perché formino il corpo della Sposa. L’orizzonte deve essere la bellezza della vita di grazia. Altrimenti rischiamo di avere una Chiesa dove forse i risposati potranno fare la comunione, ma paradossalmente il Popolo di Dio non crederà più, non comprenderà più «cosa è» e cosa dona l’Eucaristia».
Cos’è più urgente allora?
«Mi sembra che questo Sinodo per la famiglia sia veramente l’occasione per collocare il matrimonio nella Chiesa e la Chiesa nel matrimonio. Oggi nelle persone ferite, che stanno male, dobbiamo riscoprire e vedere quel costato aperto che ci rivela l’abisso infinito del mistero di Gesù, ci richiama la sua Presenza, annuncia al mondo che Lui è il Crocefisso risorto! Non possiamo pensare che la soluzione dell’accoglienza dei divorziati consista nel dare loro la comunione, come alcuni nella Chiesa oggi propongono. Non possiamo pensare che data la comunione abbiamo risolto il problema. Non possiamo affidare all’Eucaristia ciò che non riusciamo, che non facciamo come Chiesa. Stiamo dando all’Eucaristia il compito di sostituirsi alle nostre inadempienze. Siamo noi che dobbiamo diventare Eucaristia per gli sposi in crisi, per le coppie ferite, per i risposati. Per far loro capire che se c’è un’indissolubilità che non è stata conservata, un amore che è stato tradito, dall’altra parte c’è un indissolubilità eterna, un amore che non tradisce, quello di Dio per ogni uomo, del quale gli sposi sono segno visibile. Perché anch’essi si sentano amati e in comunione, perché anche se non possono gustare la comunione eucaristica possono godere della comunione fraterna, dell’essere parte di un solo corpo nella Chiesa per la misericordia del Signore. Per questo rimango convinto che separare dottrina e pastorale sia uno sminuire il mandato di Gesù. Questo tempo ci invita a ricercare le radici dell’indissolubilità e a fare una operazione di verità. Ribadisco: l'urgenza è la riscoperta del matrimonio come dono sacramentale».
Da qualche anno si dedica al “Progetto Mistero Grande”, cos'è e come opera?
«Da circa sette anni, unitamente ad un piccolo gruppo di famiglie e singole persone provenienti da varie parti d’Italia, abbiamo dato inizio a un progetto pastorale in favore della famiglia. Si tratta di un percorso articolato che intende offrire alla Chiesa e alla famiglia cristiana un approfondimento teologico, esperienziale e pastorale del tesoro di grazia contenuto ed espresso dal sacramento delle nozze. Non quindi un movimento ecclesiale, un’aggregazione intorno ad un carisma personale, ma un percorso per formare sposi e operatori di pastorale familiare perché siano poi sale, lievito, grano buono nella loro terra, sotto la guida dei loro pastori. Nel sito web www.misterogrande.org è possibile conoscere tutte le nostre attività. La Fondazione “Famiglia Dono Grande”, che si ispira alla concezione cristiana del matrimonio e della famiglia, ha lo scopo di promuovere e mantenere sicuro ed obbediente al Magistero della Chiesa il cammino del Progetto Mistero Grande. Vogliamo condividere con tutti, senza giudicare chi vive diversamente da questo ideale, che la famiglia è il dono grande per il futuro dei nostri figli e delle future generazioni».