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CHIESA ED ELEZIONI

Votare è un dovere non assoluto

Sia il presidente Mattarella, che l'arcivescovo di Milano Mario Delpini insistono sul dovere di votare. La partecipazione al voto è un dovere morale, così come ogni foma di partecipazione al bene comune. Ma non è un dovere assoluto. E in alcuni casi l'astensione, se ben motivata, è una forma di impegno politico.

Editoriali 27_01_2018

Ha iniziato il presidente della Repubblica Mattarella con il discorso di fine d’anno: "Mi auguro una grande partecipazione al voto, che nessuno rinunci al diritto di concorrere a decidere le sorti del nostro Paese”. E poi aggiunse un’analogia suggestiva: cento anni fa i diciottenni di allora – i famosi ragazzi del’99 – andarono al fronte nella Grande Guerra, oggi i diciottenni vengono chiamati al voto. E dunque pare di leggere in filigrana questa conclusione: come allora le leva era obbligatoria, anche oggi è obbligatorio andare a votare.

Poi l’invito al voto è stato lanciato anche da alcuni uomini di Chiesa. Mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano, ha scritto una lettera ai diciottenni (si vede che tutti temono una cospicua latitanza alle urne dei Millennials): «A 18 anni incomincia il diritto dovere di votare. […] Non cambierà tutto in una tornata elettorale. Ma certo con l’astensionismo non si cambia niente!”. Alle parole di Delpini hanno fatto eco quelle di Mons. Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, che nella sua prolusione in occasione dell’ultimo Consiglio permanente così si è espresso: “Come Vescovi ci uniamo innanzitutto all’appello del Capo dello Stato a superare ogni motivo di sfiducia e di disaffezione per partecipare alle urne con senso di responsabilità nei confronti della comunità nazionale”.

Non vogliamo qui soffermarci sul fatto che ormai i vescovi e cardinali parlano come i politici e si preoccupano più del bene comune che del bene comune delle anime, più a far crescere i fedeli nelle virtù civiche che in quelle cardinali e teologali, più ad invitare ad entrare nei seggi elettorali che in una chiesa o in confessionale. Pare proprio che ormai l’unica preoccupazione sia, esprimendoci in termini agostiniani, per la città terrena e non per quella di Dio.

Ma, come dicevamo, non è questo punto che vogliamo indagare, bensì un quesito eminentemente morale: è doveroso andare a votare? Sì è un dovere morale, perché su tutti grava l’obbligo di contribuire al bene comune e nelle società democratiche tale obbligo si declina anche, ma non solo, nel dovere di partecipare al voto. Detto questo però è bene aggiungere che  il dovere di votare - al pari di tutti i doveri morali affermativi che comandano di fare qualcosa di positivo/attivo – è contingente, ossia non deve essere soddisfatto sempre e comunque. Invece, e sta qui il problema, ad ascoltare le personalità di cui sopra pare proprio che il dovere di votare sia assoluto, un po’ come il dovere di non commettere un omicidio o un furto.

Quindi c’è il dovere di votare, ma questo dovere non vale sempre. Vi sono alcuni criteri che se rispettati legittimano sotto il profilo morale anche l’astensione. Il primo criterio da rispettare è il fine ricercato: perché Tizio ha deciso di non votare? Se è per indifferenza, perché è solo una fastidio recarsi alle urne o per motivazioni simili, il fine non è lecito e quindi l’astensione non è giustificata. Ma potrebbero esserci altri motivi che invece renderebbero eticamente valida l’astensione. Ad esempio: nessun partito, tenuto conto del suo programma, delle dichiarazioni dei suoi leader, del suo passato politico, ha dato prova che tutelerà i principi non negoziabili. Oppure nessun partito, nonostante le sue proposte siano moralmente accettabili, suscita la fiducia dell’elettore. Infine l’astensione potrebbe significare, nelle intenzioni del cittadino, sfiducia nelle istituzioni, critica ad alcuni assetti istituzionali ormai radicati in tutti gli schieramenti, denuncia dell’irrilevanza politica e dello scollamento tra potere politico e sentito popolare. Tutte motivazioni che sarebbe opportuno rendere pubbliche. Queste sono solo alcune finalità che potrebbero lecitamente suggerire al cittadino di non recarsi alle urne, oppure di votare scheda bianca o di rendere nulla la scheda.

Un nota bene: nel caso in cui tutti i partiti nel loro programma si dichiarassero a favore di aborto, eutanasia, divorzio, etc., il voto a favore di uno di questi partiti sarebbe un voto a favore anche del suo programma. E dunque non rimarrebbe che la soluzione dell’astensione. Eccetto questo caso, non basta un buon motivo per non votare perché l’astensione sia moralmente lecita, occorre altresì verificare che tale astensione sia efficace, ossia che produca più effetti positivi che quelli negativi. Se sul piatto della bilancia degli effetti positivi possiamo mettere quelli indicati prima – lanciare un segnale alle istituzioni richiamandole ai loro compiti, manifestare il proprio disagio perché nessun politico è percepito come vero collaboratore del bene comune o autentico rappresentante di chi vota – sull’altro piatto della bilancia dobbiamo mettere alcuni possibili effetti negativi, quali: il favorire nella collettività la disaffezione alla politica, il permettere che “altri voteranno al posto tuo”, l’incentivare lo scollamento tra mondo della politica e cittadini, etc.  Dove pende di più il piatto della bilancia lo lasciamo decidere al lettore.

A noi premeva soltanto sottolineare che l’astensione non è sempre sinonimo di disimpegno politico, ma a volte è sinonimo di impegno politico espresso per il tramite di un rifiuto al voto motivato e reso pubblico. Dunque non abbiamo voluto invitare a non votare, ma abbiamo solo voluto invitare a riflettere che non sempre si realizza l’equazione “astensione = male morale”. In breve il cittadino che si astiene dal voto può lecitamente farlo e, a priori, non è giusto additarlo a nemico pubblico o a zecca del sistema.