Volete aiutare l’Africa? Non cancellate il suo debito
«Urge la globalizzazione della solidarietà al posto della globalizzazione della discriminazione e dell’indifferenza». Lo ha detto tempo fa papa Francesco, ma è frequente il caso che gli aiuti internazionali continuino a essere erogati ai Paesi dove regnano malgoverno e corruzione. In Africa, soprattutto.
Il 16 aprile l’Unione Europea ha annunciato di aver sbloccato la consegna al Tanzania di 52 milioni di euro, parte di un pacchetto di aiuti internazionali pari a circa 460 milioni di euro promessi al Paese, ma il cui pagamento era stato sospeso lo scorso novembre in seguito al fatto che il governo tanzaniano non aveva svolto le dovute indagini in merito a un grave caso di corruzione. Situazioni del genere sono frequenti e, ancora più spesso, succede che invece gli aiuti internazionali continuino a essere erogati ai Paesi in via di sviluppo nonostante che la corruzione vi regni.
Tornano allora in mente le parole di Papa Francesco ai leader americani, in occasione del VII Vertice delle Americhe conclusosi da poco: urge una «globalizzazione della solidarietà e della fratellanza al posto della globalizzazione della discriminazione e dell’indifferenza». L’esortazione del Papa torna in mente perché il caso del Tanzania e innumerevoli altri ci ricordano che alla solidarietà e alla fratellanza, prima di tutto nei confronti dei loro connazionali, dovrebbero convertirsi per primi i governanti, impegnandosi a essere responsabili e onesti: sia quelli che donano sia quelli che ricevono aiuti.
Ma è difficile immaginare, ad esempio, Teodore Nguema rinunciare alla sua collezione di macchine Bugatti, ai suoi miliardi, alle sue proprietà immobiliari milionarie, disposto a utilizzare i proventi che la Guinea Equatoriale di cui è presidente ricava dai giacimenti di petrolio per portare, come sarebbe possibile, il Paese allo stesso livello di benessere di altri stati produttori di petrolio. Come? Investendo le risorse nazionali e gli aiuti internazionali in servizi, infrastrutture e sviluppo di settori produttivi moderni, invece di appropriarsene. Neanche l’età, l’approssimarsi della fine, riesce a far cambiare atteggiamento ai leader indifferenti e avidi e, men che meno, le sanzioni, le pressioni diplomatiche, le denunce depositate presso la Corte penale internazionale.
L’ultranovantenne Robert Mugabe, dal 1980 padrone dello Zimbabwe, si regola nei confronti dei propri connazionali sempre allo stesso modo: sterminare gli avversari, manovrare con ogni mezzo gli esiti elettorali per conservare il potere, godersi senza scrupoli quel che resta del patrimonio nazionale mentre un quarto della popolazione è emigrata in Sudafrica per sopravvivere alla fame e alle persecuzioni e un terzo di chi è rimasto dipende dagli aiuti umanitari internazionali. In certi Stati i livelli di corruzione e malgoverno sono inimmaginabili. Nel caso di altri si va al di là della stessa corruzione. Corea del Nord ed Eritrea sono prigioni a cielo aperto. I loro leader, rispettivamente Kim Jong-un, ultimo di una dinastia di dittatori, e Isaias Afewerki, trasformatosi da eroe dell’indipendenza dall’Etiopia in dittatore assoluto, ne dispongono come se fossero loro proprietà e ne perseguitano senza pietà gli abitanti.
Nel frattempo, e ciononostante, cooperazione internazionale e rimesse degli emigranti riversano ogni anno su questi e su tanti altri stati centinaia di miliardi di dollari che aiutano a sopravvivere centinaia di milioni di persone povere fornendo loro cibo, assistenza sanitaria, scuole, denaro, abitazioni, attrezzi. Ma sostituirsi e supplire alle risorse insufficienti, o male utilizzate, di un Paese con quelle prodotte in abbondanza altrove non elimina la povertà, la dissimula e neanche, come spesso si sostiene, rimedia a un’ingiustizia: poiché nei Paesi poveri l’indigenza deriva da una generale, ridotta capacità produttiva associata allo spreco e alla razzia delle risorse disponibili, compiuti da e con la complicità di chi controlla le istituzioni politiche di quei paesi e ne approfitta.
In Somalia, per citare uno dei casi più scandalosi, su 10 dollari consegnati al governo dalla comunità internazionale sette non arrivano mai nelle casse dello Stato. Lo denunciava il Gruppo di monitoraggio sulla Somalia dell’Onu nel luglio del 2012 a conferma di quanto in precedenza rivelato dalla Banca Mondiale secondo cui, tra il 2010 e il 2011, si sono perse le tracce del 68% degli aiuti internazionali al Paese. Tuttavia, nel settembre del 2013, una Conferenza internazionale svoltasi a Bruxelles ha raccolto, grazie ai contributi di oltre 50 Paesi, 1,8 miliardi di euro per la Somalia, che si sono aggiunti al miliardo e 120 milioni già forniti dall’Unione Europea tra il 2008 e il 2013. Il risultato della Conferenza è stato presentato come un grande successo della solidarietà internazionale poiché la cifra raggiunta era più che doppia rispetto a quella che gli organizzatori avevano sperato di raccogliere.
Come sostengono da anni poche voci del tutto inascoltate, alcune africane come quella dell’economista zambiana Dambisa Moyo e della sociologa camerunese Axelle Kabou, bisognerebbe piuttosto smettere di legittimare dittature dissimulate da istituzioni democratiche, smettere di dar loro sostegno finanziario condonandone i debiti, pagando in vece loro quelli contratti con gli organi di credito internazionali e concedendo loro altri fondi che verranno usati male e intascati indebitamente da qualcuno come i precedenti. E forse anche smettere di aiutarli a placare le loro popolazioni deluse e risentite sopperendo ai servizi e alla infrastrutture a cui non provvedono e soccorrendo le vittime dei loro conflitti e delle loro persecuzioni. Non si sconfigge la povertà e non si combattono le ingiustizie sociali se non con la globalizzazione dell’economia, della cultura, dell’informazione, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche moderne.