Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL RICORDO

“Voglio il Golgota”. Così Wojtyla adempì la sua missione

26 marzo 2000, ultimo giorno del pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa. Tutto è pronto per la partenza verso l’aeroporto. Ma il Santo Padre, già con il Parkinson, insiste per andare sul Calvario. Una lunga attesa, i servizi di sicurezza in fermento, lui immerso nella preghiera. Alla fine Wojtyla tornerà sul luogo della crocifissione, per unire le sue sofferenze a quelle di Gesù. E introdurre l’umanità, con rinnovata speranza, nel terzo millennio.

Ecclesia 19_05_2020

Giovanni Paolo II aveva compreso pienamente nell’ultimo decennio del Novecento che il Signore della vita e della storia gli aveva affidato il compito di introdurre la Cristianità nel terzo millennio. E comprese che questo tempo dovesse avvenire nella sofferenza, quella che si era a lui rivelata con l’attentato di Ali Agca del 13 maggio 1981, al quale era miracolosamente sopravvissuto, e un decennio dopo era maturata con l’insorgere del Parkinson che, lentamente ma inesorabilmente, lo avrebbe alla fine paralizzato e portato alla morte il 2 aprile 2005.

Una condizione che lo accompagnava nell’espletamento del suo ministero petrino. Ma se allora veniva riferita, inevitabilmente, alla sua persona, allo stato della sua salute, oggi ci si presenta anche come segno profetico di evenienze possibili, anche se imprevedibili e addirittura impensabili. Anche se non sappiamo se questa “visione” fosse entrata nelle sue previsioni, fosse emersa dalla lettura del tempo passato dell’umanità, gli fosse balenata fra le riflessioni sugli accadimenti ciclici che hanno scandito la storia dei popoli.

Ma una sua testimonianza ci dice come egli avesse voluto accompagnare il transito dell’umanità dal secondo al terzo millennio con l’adorazione delle sofferenze e della morte di Gesù, Nostro Signore, nella sua Gerusalemme. E come di questa adorazione ci abbia lasciato qualcosa di più di un ricordo. Della sua testimonianza sono stato cronista per la mia professione e testimone per la mia fede.

Era il 26 marzo 2000, ultimo giorno del pellegrinaggio di Giovanni Paolo II in Giordania, Territori palestinesi e Israele, cominciato sei giorni prima. Vivevo quindi giorni “febbrili” del mio servizio in Israele, ospite già da parecchi anni del patriarca Michel Sabbah nel Patriarcato latino; anche perché condirettore degli Annales dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme (rivista per la quale avrei riassunto lo svolgimento del pellegrinaggio in 20 pagine illustrate) e inoltre responsabile della temporanea redazione di Radio Vaticana, composta da una dozzina di religiosi di altrettante lingue da me preparati come giornalisti a tempo pieno ma per un periodo limitato (18 mesi).

Il pellegrinaggio si concludeva appunto in Patriarcato con un pranzo ufficiale nel vasto refettorio, anche di rappresentanza perché accoglieva stabilmente alle pareti laterali i ritratti dei Patriarchi defunti, dalla sua ricostituzione nel 1847: Giuseppe Valerga, Vincenzo Bracco, Luigi Piavi, Filippo Camassei, Luigi Barlassina, Alberto Gori e Giacomo Beltritti (e in quella di fondo un affresco, l’Ultima Cena di Ferdinando Michelini). La disposizione dei tavoli era stata naturalmente modificata e così quella dei posti, per consentire alle personalità più importanti di stare vicino al Santo Padre. Il mio posto fu stabilito nel tavolo vicino di sinistra. Da dove ebbi la possibilità di annotare quel che a un giornalista poteva apparire rilevante. Non mi sfuggì così il momento affettuoso in cui il patriarca Sabbah gli appuntò sulla veste bianca la “Conchiglia del Pellegrino”. Poi lasciai il mio posto per trasferirmi nell’atrio del palazzo patriarcale dal quale si esce, ma anche si entra, e da cui si accede pure alla chiesa concattedrale ove si erano trattenuti molti fedeli, alcune centinaia, speranzosi di salutarvi l’illustre ospite che invano avevano atteso all’interno, appena arrivato.

Ma quando vi giunsi, proprio nel centro del cortile, c’era Giovanni Paolo II seduto sull’alto della “Papa mobile” con la quale fino a poche ore prima aveva attraversato le strette e scoscese vie della “Città vecchia” di Gerusalemme; a bordo di essa era giunto in Patriarcato dalla Basilica del Santo Sepolcro. Dove, proprio dinanzi all’edicola che custodisce la tomba di Gesù Risorto, aveva presieduto la celebrazione dell’Eucaristia e lasciato nell’omelia un forte messaggio ecumenico. Una cerimonia indimenticabile, alla quale avevano assistito i vescovi cattolici dei vari riti, 250 religiosi e religiose e circa 200 fedeli della parrocchia francescana di San Salvatore nonché i capi delle altre Chiese di Gerusalemme, fra i quali i patriarchi greco-ortodosso Diodoros I e armeno-ortodosso Manoogian nonché l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Aharon Lopez.

Da una distanza di qualche metro attesi che partisse. Per l’aeroporto, come prevedeva il programma ufficiale. Colsi la felicissima, inaspettata, occasione di stargli vicino e cominciai a “parlargli in silenzio”, a confidargli innanzitutto la mia gratitudine per quella circostanza, la mia commossa condivisione della malattia che coglievo dal suo volto, la mia preghiera che si intrecciava con la sua. Era evidente che egli fosse immerso in un’incessante preghiera. Io lo guardavo, non mi stancavo di scoprire le reazioni che l’attesa, che si protraeva, gli avrebbe provocato. Ma lui non si scomponeva.

Quando mi resi conto che era trascorsa molto più di mezz’ora mi diedi da fare per capire cosa stesse accadendo, del perché il Papa venisse lasciato solo, dentro quella vettura, in quella situazione... Scoprii allora che egli aveva deciso di non partire da Gerusalemme per l’aeroporto di Tel Aviv (dove certamente veniva preparata la cerimonia ufficiale di commiato), di non voler tornare a Roma se prima non fosse andato ancora una volta nella Basilica del Santo Sepolcro, o meglio, non fosse andato sul Calvario. Pensai allora che non per un atto di adorazione soltanto egli intendesse accostarsi al Golgota, ma anche per svolgere, sciogliere, dipanare quella preghiera che gli urgeva in cuore e aveva poi aveva ordinato, ricomposto, arricchito nel chiuso della “Papa mobile” per confidarla a Gesù Salvatore proprio nel luogo ove era stato crocifisso e aveva reso lo Spirito al Padre.

L’attesa di cui mi sorprendevo - e che si sarebbe protratta ancora per quasi un’ora, in cui sempre gli sono stato vicino - era dovuta alla ricostruzione di tutto l’apparato di sicurezza israeliano che era stato smantellato poche ore prima, della nuova chiusura del percorso, del riposizionamento dei controlli. E tutto questo esigeva molto tempo. Non riuscii mai a sapere, né volli indagare per un istinto di riservatezza che bloccò sempre ogni mia inclinazione professionale, i particolari del “come” Giovanni Paolo II, visibilmente aggredito dal Parkinson, avesse potuto superare quella ripidissima scalinata di accesso al Golgota dall’interno della Basilica; del “come” fosse stato aiutato a vincere quel serio impedimento che appunto aveva fatto escludere dal programma ufficiale la desiderata sua visita.

Ma ebbi la consapevolezza, che confermo ancor oggi, del significato di quel suo gesto, conclusivo del pellegrinaggio nel sito emblematico del sacrificio di amore di Gesù Dio all’umanità. Giovanni Paolo volle adorare le sofferenze e la morte del Salvatore, volle portare la sua personale sofferenza dinanzi alla Croce e volle accompagnare a Gerusalemme la Cristianità tutta che si immetteva nella storia del terzo millennio, anch’essa nel mezzo di tante sofferenze. Alcune si erano palesate con la grande e tuttora persistente conflittualità nella regione ma ben presto avrebbe anch’egli compreso la gravità dall’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001. Oggi noi stiamo vivendo una pandemia globale, la paralisi mondiale provocata dal coronavirus.

Ma con lo stesso atto di adorazione Giovanni Paolo II riaffermò, e non poteva non farlo, il valore salvifico della sofferenza e la sconfitta della morte, perché proprio quello stesso luogo è da sempre e per sempre testimone del duello che ha visto vincitrice la vita. «La Risurrezione di Gesù è il sigillo definitivo di tutte le promesse di Dio, il luogo di nascita di una umanità nuova e risorta», aveva proclamato poche ore prima nell’omelia dinanzi alla tomba vuota, «il pegno di una storia segnata dai doni messianici della pace e della gioia spirituale».

Una professione di fede e di speranza insieme, questo è il senso del pellegrinaggio a Gerusalemme, nella preghiera e umile invocazione della Misericordia.