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PERSONAGGI

Vo Van Ai, il buddista che vuole liberare il Vietnam

Combatte per la democrazia e i diritti umani, gira il mondo per far conoscere la realtà del comunismo: "L'Occidente non vuol vedere". 

Attualità 08_07_2011
vo van ai
Vo Van Ai ha dedicato tutta la sua vita alla difesa dei diritti umani del suo popolo: i vietnamiti.
“Giravo per il mondo per assicurarmi che fosse nota all’opinione pubblica mondiale la questione dei diritti umani del popolo vietnamita ancor prima che si concludesse la guerra in Vietnam”, spiega subito, appena facciamo la sua conoscenza a Lucca, poche ore prima che la giuria dell’associazione liberale “Società Libera” gli tributi, sul grande palco di fronte al Duomo di S. Martino, il “premio speciale alla libertà”. “Rai Due” trasmetterà stasera, venerdì 8 luglio, alle 23,30, l’assegnazione del premio e il discorso di questo uomo, esiliato dal suo paese, senza mai potervi far ritorno dal 1975, anno della presa del potere del Partito comunista in Vietnam.

“Noi, membri della Chiesa buddista unificata del Vietnam - prosegue a spiegare le ragioni della sua vita e delle sue indomite battaglie - volevamo la pace per il nostro paese, ma abbiamo sempre capito che la pace giusta non sarebbe stata quella che poteva arrivare con la vittoria del Partito comunista”. La difesa dei diritti dei vietnamiti non poteva esser lasciata nelle mani di un partito che ancor oggi, dopo più di trent’anni di potere dispotico, non accetta opposizioni politiche al suo governo, né elezioni libere.

“Anche i membri del partito, ai tempi della guerra e alla fine della guerra vietnamita, parlavano di maggiori diritti per le popolazioni e difesa delle minoranze, ma non hanno mai fatto nulla per il popolo. Il buddismo è la religione più importante in Vietnam e la nostra chiesa è stata dichiarata ufficialmente bandita dal Paese già nel 1981, poi il partito ha creato una chiesa buddista gestita dallo Stato. Non si nega alla gente di recarsi alla pagoda, come non si vieta ad esempio ai cristiani di andare in chiesa la domenica, ma è tutta una finzione, è una religione superficiale gestita dal potere”.

Gli attuali capi della chiesa buddista unificata vietnamita vivono in Vietnam ancor oggi, in clandestinità o agli arresti domiciliari, come l’attuale leader ottantatreenne, Thich Quang Do. La chiesa, che riunisce la tradizione zen Rinzai e Theravanda, non si è voluta sottomettere al partito al potere e continua ad essere, ancor oggi, perseguitata e accusata dalla stampa vietnamita di “essersi separata dal movimento buddista ufficiale e dall’intera nazione con il sostegno di forze straniere ostili”: Vo Van Ai è stato nominato capo della chiesa vietnamita unificata all’estero dal 1964.  Dal 1976 pubblica in Francia una rivista in lingua vietnamita su democrazia, diritti umani e cultura, che riesce a far circolare  anche in Vietnam, ma clandestinamente: si chiama “Que Me”, che significa “Terra natale”, stesso nome con cui ha intitolato la fondazione per sostenere democrazia e diritti in Vietnam e di cui è presidente.

“Mi muovo su due campi: uno internazionale con interventi ovunque mi chiedano per parlare di Vietnam: al Parlamento Europeo, alle Nazioni Unite, al Congresso americano, nelle ambasciate e ovunque possa farlo e d’altro canto cerco di rimanere accanto all’opinione pubblica vietnamita spiegando, che non bisogna accontentarsi, che bisogna credere e sperare di avere diritti nella nostra società”. Fu Vo Van Ai, subito alla fine della guerra, a tracciare la prima mappa dei 150 campi  di rieducazione nel nord e nel sud del paese: ben 800mila prigionieri politici di cui fino a quel momento, si era persa ogni traccia. Nel 1978 contribuì al varo della prima nave “Ile de Lumiere”, che soccorse i profughi vietnamiti nel Mar Cinese meridionale.

Come mai – gli chiediamo – il problema di violazioni dei diritti umani e democrazia in Vietnam è tanto meno conosciuto, internazionalmente, che le analoghe violazioni del governo cinese? “Il governo vietnamita - risponde - è molto intelligente nel crearsi buona pubblicità internazionale: soprattutto ora che ha aperto al turismo e al commercio. Se si va in Vietnam, non ci si accorge della polizia in borghese che controlla tutto e tutti, dei giornali che sono tutti sottomessi al regime anche se sono così tanti che è difficile da credersi”. E poi, aggiunge la sua portavoce e da lunga data amica, l’inglese Penelope Faulkner: “Credo che ci sia imbarazzo dell’Occidente. Abbiamo protestato per anni contro l’invasione americana del Vietnam, esultato per la fine della guerra, ora vedere questa realtà è difficile. Anche per gli americani. Poi ci sono le ragioni del business: oggi produrre in Vietnam costa meno che in Cina, Clinton è andato in visita ad Hanoi acclamato come un divo, alla fine dei suoi due mandati presidenziali. Si chiude gli occhi sul resto”.

“Incontrai il presidente Mitterand che si recava, nel 1991, primo capo occidentale dalla fine della guerra, in Vietnam - dice Vo Van Ai - Gli chiesi che motivazioni aveva di recarsi nel paese. E lui mi rispose che il primo motivo era il commercio, erano già andati i capi di stato di Singapore, del Giappone; il secondo motivo era conoscere meglio la società; il terzo sincerarsi della questione dei diritti umani”.