Visitare Recanati con gli occhi della «doppia vista» di Leopardi
Guardiamo il colle dell’infinito, la torre del passero solitario, la piazzetta del sabato del villaggio con l’immaginazione trasmessa dai versi del poeta, ma anche con gli occhi della nostra immaginazione.
Vi sono paesi che portano impresso nel loro nome il grande poeta che vi è nato: è il caso di Arquà Petrarca o di Bosisio Parini. Ve ne sono altri che sono divenuti sinonimo dell’artista stesso, che attirano e affascinano già solo per il fatto che da sempre, da quando si era sui banchi di scuola, il gran nome del poeta era indissolubilmente legato al paese natio: è questo il caso di Recanati, che per il visitatore ha la suggestione del luogo in cui Giacomo Leopardi ha incontrato le «occasioni - spinta» (espressioni di Montale) per stendere versi indimenticabili, come quelli dell’Infinito, di Alla luna, di La sera del dì di festa, de Il sabato del villaggio, de Il passero solitario, di A Silvia, solo per citare qualche celebre esempio. Ora quei versi si possono leggere lungo le vie delle strade della città.
Primogenito di Monaldo Leopardi e di Adelaide Antici, Giacomo mostrò il suo genio fin da piccolo, quando studiava e giocava in compagnia del fratello Carlo e della sorella Paolina, ammirato da un padre che aveva scelto come precettori due ecclesiastici (don Giuseppe Torres e don Sebastiano Sanchini).
Ben presto imparò il latino, il greco, l’ebraico e non ebbe più bisogno dei precettori. Per sette anni si dedicò a quello che avrebbe lui stesso chiamato «uno studio matto e disperatissimo» leggendo i libri della biblioteca paterna dotata di ben ventimila volumi. Per realizzarla Monaldo aveva dilapidato ingenti ricchezze, acquistando i volumi dei conventi, dopo la fuga di molti ecclesiastici a seguito dell’entrata delle truppe napoleoniche in Recanati nel 1798.
Il palazzo, ancora proprietà dei discendenti dei Leopardi, è in gran parte visitabile. Il poeta vi abitò fino al novembre 1822, quando si recò a Roma ospite dello zio Antici fino all’aprile 1823. Poi Leopardi ritornò a Recanati, abitandovi per lo più dal 1823 al 1824 e dal 1828 al 1830, quando salutò il paese per non farvi più ritorno.
Dal Palazzo di casa Leopardi il poeta poteva ascoltare Teresa Fattorini, figlia del cocchiere della famiglia, che abitava proprio dinanzi, morta di tisi il 30 settembre 1818, ricordata dieci anni dopo la morte col nome di Silvia, in versi che fanno risuonare anche le nostre stanze del canto di quella ragazza scomparsa in sì tenera età. Come non sentire qui presente, con noi e con il nostro stesso desiderio di vita, quella ragazza che Leopardi apostrofa come se fosse lì al suo fianco:
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Dal luglio 2017, dopo i restauri fatti realizzare dai discendenti Leopardi, è possibile visitare anche la casa di Teresa Fattorini, uno stabile costruito nel 1796 per volontà di Monaldo Leopardi: vi sono due camere e la cucina, arredate con suppellettili d’epoca (ad esempio, attrezzi per la tessitura).
Dal palazzo Leopardi poteva osservare l’indimenticabile scena di paese «in sul calar del sole», descritta ne Il sabato del villaggio giocata sull’antitesi di due figure, la «donzelletta» e la «vecchierella». La prima vive con gioiosa attesa il dì festivo e raccoglie i fiori che l’abbelliranno il giorno successivo, la seconda vive nei ricordi di quando, giovane, «ai dì della festa ella si ornava» e «Solea danzar la sera intra di quei/ Ch’ebbe compagni dell’età più bella». Possiamo attendere col poeta l’imbrunire, l’apparire della luna, il suono delle campane che preannunciano la festa; forse, non udiremo più (potremo solo immaginarle) le grida dei fanciulli che rallegrano chi le ascolta, accomunate al fischiettare dello zappatore, solitario, che torna a casa terminato il lavoro.
Nella piazza si trova la chiesa di Santa Maria in Montemorello dove Giacomo Leopardi fu battezzato nel 1798.
A due passi dal palazzo familiare il poeta poteva fermarsi a rimirare la siepe sul monte Tabor, che ostacolava la vista del paesaggio e che invitava il poeta ad andare oltre con lo sguardo dell’immaginazione. Nacquero così i versi dell’Infinito: la scrittura accompagna questo inoltrarsi della mente nell’assoluto attraverso gli enjambements che traducono l’immagine dello sguardo che si avventura al di là della siepe (proprio come l’unità sintattica si protende al di là dell’unità metrica). L’animo dell’uomo non può reggere per molto il pensiero dell’infinito percepito attraverso le coordinate spaziali, perché prova come una vertigine, il brivido dell’incommensurabile («ove per poco/ Il cor non si spaura»). Così, anche un fatto per così dire insignificante (lo stormire del vento tra le piante) ci distoglie dal rapporto con l’infinito e ci riporta repentinamente al contingente, al tempo che passa, agli anni che trascorrono, agli attimi fuggenti. Il poeta per pochi istanti compara la brevità degli anni con l’eternità (l’infinito dal punto di vista temporale): esperienza dell’immaginazione sostenibile per pochi secondi, perché il nostro io naufraga in questa immensità, provando, però, un senso di grande piacere (proprio perché il nostro animo è fatto per l’infinito).
All’interno del complesso della Chiesa di Sant’Agostino a Recanati (risalente al XIII secolo) si erge la torre che ha ispirato a Leopardi i versi de Il passero solitario:
D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Recandoci a Recanati, guardiamola con gli occhi della «doppia visione» formulata da Leopardi:
All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione (30 novembre 1828).
Guardiamo il colle dell’infinito, la torre del passero solitario, la piazzetta del sabato del villaggio con l’immaginazione trasmessa dai versi del poeta, ma anche con gli occhi della nostra immaginazione.