Vietato fare di tutte le Regioni un fascio. Ecco perché
Paolo Togni ha dedicato la puntata della sua rubrica Paolo il caldo a un’invettiva contro le Regioni. Sin dal suo nome la rubrica si annuncia come paradossale e provocatoria. Rispettandone il carattere, mi interessa però discutere alcuni dei criteri di fondo che la ispirano sui quali non sono affatto d’accordo.
Paolo Togni ha dedicato la puntata della sua rubrica Paolo il caldo a un’invettiva contro le Regioni (clicca qui). Sin dal suo nome la rubrica si annuncia come paradossale e provocatoria. Rispettandone il carattere non intervengo nello specifico dei suoi argomenti. Mi interessa però discutere alcuni dei criteri di fondo che la ispirano sui quali non sono affatto d’accordo.
In primo luogo trovo incongruo parlare delle “Regioni” (come analogamente dei Comuni o delle sventurate Province) come di un insieme indifferenziato. Si tratta in effetti di realtà molto eterogenea. Qualcuna va anche peggio dello Stato, il grosso va più o meno come lo Stato, ma alcune vanno molto meglio: innanzitutto la Lombardia, ma poi anche altre Regioni del Nord nonché le due Province autonome di Bolzano-Bozen e di Trento.
In termini però di popolazione e di risorse amministrate queste Regioni e Province Autonome che vanno molto meglio dello Stato pesano ben di più di quanto si potrebbe pensare tenendo solo conto del loro numero. Con i suoi quasi dieci milioni di abitanti la Lombardia vale 31 volte il Molise, 17 volte la Basilicata, 11 volte l’Umbria, 6,5 volte le Marche, ma anche assai di più del Lazio e della Campania. Se poi andassimo a valutare la rispettiva incidenza sull’economia nazionale scopriremmo ad esempio che ciascuna delle due Province autonome pesa molto di più di diverse Regioni peninsulari. Già solo per questo, ma poi si aggiungono altri motivi su cui ci soffermeremo più avanti, una perentoria e indifferenziata condanna delle autonomie territoriali non si giustifica.
In secondo luogo, malgrado tutto ciò che si può dire di male dei governi locali, in quanto a sprechi di risorse pubbliche il campione assoluto è lo Stato. Basti citare ad esempio la scuola statale, una gigantesca macchina mangiasoldi fatta a misura non del diritto all’istruzione degli alunni ma della garanzia del posto di un personale largamente superiore al necessario. Basti citare ancora le burocrazie ministeriali il cui rapporto costo-rendimento nell’economia privata costerebbe la testa anche al più intoccabile degli amministratori delegati. È evidente che, nel quadro del suo programma di generale riaccentramento dello Stato italiano, il governo Renzi ha ispirato una campagna di stampa contro le Regioni e gli altri enti di governo locale. Se la stampa amica di questo governo voltasse però verso l’amministrazione statale i riflettori che ora sta puntando sulle Regioni più sgangherate e sullo sgangheratissimo comune di Roma, in quattro e quattr’otto si illuminerebbe un paesaggio tale da far rimpiangere anche la Regione Lazio e magari pure le magagne di Roma Capitale.
In terzo luogo osservo che le provocazioni di Paolo Togni hanno in filigrana l’idea, a mio avviso l’illusione, che il risanamento della macchina della pubblica amministrazione passi attraverso la concentrazione di ogni sua responsabilità operativa nelle mani di un esercito di commissari e di prefetti. Non è vero, non ha mai funzionato. La via maestra di tale risanamento è un’altra, quella che finora purtroppo nel nostro Paese non si è voluto imboccare: quella dell’autonomia responsabile e quindi dell’introduzione di meccanismi che rendano trasparente la spesa, e quindi possibile il suo controllo politico da parte degli elettori.
É vero invece che quando all’autonomia non corrisponde la responsabilità fiscale in molti contesti si arriva alle aberrazioni che Paolo Togni depreca. Qui ha ragione, ma ribadisco che la via d’uscita da tale stato di cose non è il ritorno di ogni potere a Roma bensì l’attuazione piena del principio di autonomia, di cui la responsabilità è un elemento essenziale.