«Vi spiego come si curano le vite fragili come Vincent»
«La morte per disidratazione e denutrizione imposta a Vincent Lambert è segno di un abbandono e disprezzo del valore della vita». «Una volta una mamma mi ha detto: “La mia Maria è grave, però per me è come se l’avessi partorita un’altra volta”». Intervista al dottor Giovanni Battista Guizzetti, che al Don Orione di Bergamo si prende cura di 24 pazienti con deficit di coscienza. E testimonia l’importanza per queste persone della relazione con i loro cari, fonte di una ricchezza nascosta.
«In tutti questi anni non ho mai avuto, neanche velatamente, una richiesta di sospensione di cure. E questo perché i familiari riescono a costruire una relazione nuova, diversa, con questi loro cari ammalati. Io ricordo che una volta una mamma mi ha detto: “La mia Maria [nome di fantasia] è grave, però per me è come se l’avessi partorita un’altra volta”. E parliamo di una mamma anziana. Che aveva questa consapevolezza di potersi relazionare in modo nuovo con sua figlia». A parlare è il dottor Giovanni Battista Guizzetti, chirurgo specializzato in Geriatria, dal 1997 responsabile dell’équipe del Centro Don Orione di Bergamo che si prende cura di 24 pazienti con gravi lesioni cerebrali, spesso riduttivamente definiti in «stato vegetativo».
L’esperienza quotidiana vissuta al Don Orione ci ricorda il grande dono che è ogni vita umana, ed evidentemente stride con la mentalità eutanasica che viene promossa nelle nostre società, tristemente messa in pratica con l’eutanasia di Stato su Vincent Lambert, fatto morire di fame e di sete. Alla base di questo contrasto ci sono proprio due visioni opposte della vita, come spiega ancora il dottor Guizzetti in questa intervista alla Nuova Bussola.
Dottor Guizzetti, come ha reagito alla notizia della morte di Vincent?
Come tutte le persone che si prendono cura di pazienti in queste condizioni, nel senso che c’è grande sgomento, perché la morte così come è stata provocata a Vincent - e prima ancora a Eluana Englaro e Terri Schiavo - è una cosa che spaventa. Questa morte per disidratazione e denutrizione porta sofferenza alla persona, è segno di un abbandono e disprezzo del valore della vita, di cui dobbiamo prenderci cura. Sono sempre più sconvolto dal sovvertimento del quadro generale a cui noi oggi assistiamo, dove si affermano diritti che in natura non esistono, come quello di “avere” figli per due persone dello stesso sesso, e si negano allo stesso tempo dei diritti che sono naturali, che scaturiscono dalla nostra esperienza cristiana, come accudire, prendersi cura, alimentare, idratare le persone che vivono in condizioni gravi, di fragilità e disabilità.
Di Vincent è stato detto che fosse “un vegetale”, ma allora perché dopo l’interruzione dell’idratazione gli inumidivano le mucose? Vuol dire che soffriva?
Sì, e non si tratta solo del cavo orale, perché la disidratazione colpisce tutto l’organismo, anche il cervello. E quindi questo causa sofferenza. La sedazione penso l’abbiano fatta con questo scopo. Anche a Terri Schiavo era stata fatta una sedazione con morfina perché lei evidentemente soffriva. Il problema è già a monte, e riguarda l’introduzione del termine «stato vegetativo», che è sbagliato innanzitutto perché l’essere umano non è un vegetale e poi perché «stato» dà l’idea di una cosa cristallizzata mentre la condizione in cui vivono le persone con un grave deficit di coscienza varia sempre nel tempo e anche a distanza di molti anni dall’evento acuto c’è la possibilità che queste persone riacquistino una capacità di relazione ambientale, con il papà, la mamma, il marito, la moglie, ecc.
Vincent ha resistito 9 giorni, senza acqua e cibo. Come si spiega questa resistenza, visto che di lui si è arrivato addirittura a dire che fosse in fin di vita o “terminale”?
Assimilare lo stato vegetativo a una condizione di fine vita è una menzogna totale. Nel mio reparto ho persone che sono ricoverate da 15-20 anni. Per Eluana l’agonia è stata di 3-4 giorni, per Terri Schiavo 14 giorni, e per Vincent 9. Tra l’altro, a giudicare dalle immagini, Vincent sembrava trovarsi in una condizione detta di minima coscienza, perché interagiva con la mamma, girava gli occhi verso di lei quando gli parlava, capacità che nello «stato vegetativo», per definizione, non si hanno.
Nel suo reparto quanti pazienti ha oggi?
Sono 24. Sono di età variabile, adesso abbiamo un ragazzo molto giovane e persone molto anziane. Ognuno è diverso dagli altri. Qualcuno ha un deficit di coscienza molto grave, e qualcun altro più leggero. Però con tutti si riesce a costruire una relazione di cura e una relazione personale con i familiari, che sono molto spesso presenti, anche quotidianamente presenti ai loro cari. Se li portano in giro in carrozzella, gli parlano e si relazionano continuamente con loro.
Lei parla spesso di «relazione».
La relazione è fondamentale. Non è semplice farlo capire all’esterno, ma è come se tra di loro - i mariti, le mogli, le mamme, i papà, i figli - riuscissero a costruire un dialogo, una comunicazione che a me per esempio, con le persone di cui mi prendo cura, non riesce. Alla base c’è sempre una relazione molto forte. I parenti ci dicono cose che a noi, come personale intendo, appaiono impossibili: per esempio che i loro cari rispondono quando gli dicono qualcosa, che a volte pronunciano qualche parola, che quando gli dici di stringere la mano la stringono, cose che con me magari non fanno. Io do sempre credito a queste cose che mi dicono i familiari.
È come una ricchezza nascosta?
Guardi, abbiamo assistito anche a recuperi clamorosi del livello di coscienza delle persone, senza aver fatto nessuna particolare terapia farmacologica o medica. Io sono convinto che l’atto di relazionarsi - la compassione che c’è letteralmente tra queste persone - sia esso stesso un atto terapeutico. Rispetto a molte situazioni di recupero non ci sono altre spiegazioni.
Lei, in un suo libro che prendeva spunto dal caso di Terri Schiavo, aveva sottolineato la dimensione del mistero che c’è in queste situazioni, giusto?
Sì, oggi si fanno troppe affermazioni sullo stato vegetativo, l’assenza di coscienza, l’assenza della capacità di percepire il dolore, che non sono assolutamente dimostrabili, perché la coscienza è una dimensione dell’esperienza umana che non è quantificabile. Io posso dire che una tale persona non è capace di comunicare, ma non posso dire quanto sia o meno capace di percepire lo stimolo che le do. Può non comunicare con i canali verbali e gestuali che usiamo noi, però ha una capacità di comprensione - di sé stessa e dell’ambiente che la circonda - che noi non possiamo misurare. È per questo che dico che è un mistero.
Ne ha già accennato, ma che aspettativa di vita hanno di solito questi pazienti?
Lunga. Oggi le tecniche assistenziali sono molto migliorate. Il fatto che una persona, in 10-15 anni, non sviluppi mai una piaga da decubito, venga nutrita, idratata, mobilizzata e portata in giro su una carrozzina - avendo quindi pure una stimolazione sensoriale - significa che il comfort di vita che si può dare a queste persone è notevolmente migliorato. Tra l’altro, questa assistenza non è nemmeno costosa. Il problema è che è in gioco un giudizio di valore sulla vita, e che c’è una parte della società moderna che queste vite le scarta perché le considera inutili.
Prima ha parlato di recuperi.
Sì, ho visto pazienti che hanno recuperato. Ultimamente abbiamo dovuto addirittura dimettere due persone perché non erano più considerate in stato vegetativo oppure di minima coscienza, e nel nostro reparto i posti letto sono dedicati soltanto alle persone con compromissione molto grave. Perché queste persone avevano recuperato parecchio e ora hanno capacità di comprendere, di parlare, di alimentarsi, venendo imboccati. Hanno un quadro di grave disabilità, che comunque gli consente una vita di relazione.
In Italia siamo stretti tra la legge sulle Dat e l’ordinanza della Corte Costituzionale che spinge per aprire le porte al suicidio assistito.
Noi non possiamo assimilare, come invece fa adesso la legge, idratazione e nutrizione a un trattamento terapeutico; il tentativo di identificarli come trattamento terapeutico è per poter dire che acqua e cibo sono futili e sproporzionati. Ma non sono certo futili perché servono allo scopo per cui sono garantiti, che è permettere alla persona di continuare a vivere, e non sono nemmeno sproporzionati perché si tratta al più di posizionare una Peg. Non mi pare che togliere da mangiare e da bere a un disabile sia la soluzione del problema: 2.000 anni di storia e di civiltà non ci hanno insegnato queste cose. Il punto è che nel momento storico attuale un’élite culturale ha fatto passare come un’emergenza il fare una legge sull’eutanasia, quando in realtà l’emergenza è quella di garantire assistenza.