Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL NUOVO PIANO

Verso l'affermazione di un'ideologia vaccinista

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A Milano il convegno che analizza il nuovo Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale. Sicurezza, rischi/benefici, efficacia: tutto è estremamente generico e dettato dal motto "più si vaccina meglio è" anche se mancano analisi e dati. E la farmacovigilanza è carente. Le richieste della Commissione Medico-Scientifica Indipendente per un confronto e un dibattito aperto. 
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Attualità 05_05_2023

Mercoledì si è svolto a Milano un convegno organizzato dalla Commissione Medico-Scientifica Indipendente (CMSI) (https://cmsindipendente.it/) sul nuovo Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale (PNPV) che è in fase di approvazione. Esso prevede una serie di inoculi, spesso fatti con molteplici prodotti mescolati assieme, nel corso di tutta la vita; si è calcolato che si potrebbe arrivare a ben 60 vaccini, con somministrazioni annuali o persino semestrali, oltre a quelle fatte tre o quattro volte nel primo anno di vita. La CMSI chiede un confronto tecnico approfondito e sottolinea che non esiste alcuna urgenza, né pericolo del ritorno delle epidemie del passato (polio, difterite) e che anche un’eventuale revisione dell’obbligo vaccinale non potrebbe destare preoccupazioni per la sanità pubblica.

La parte introduttiva del PNPV è caratterizzata da un’ampia serie di affermazioni di principio, molto generiche, come: “Lo Stato ha il dovere di garantire la tutela della salute di tutti i cittadini”; “il Piano Nazionale della Prevenzione è teso a promuovere interventi e strategie innovative per la salute, che siano fondate sui principi responsabilizzazione, collaborazione, interdisciplinarità e intersettorialità”; “i vaccini hanno rappresentato uno strumento fondamentale per contrastare disastrose epidemie”; “grazie alle vaccinazioni siamo in grado di allontanare il rischio delle malattie prevenibili”; “l’agenda dell’OMS sull’immunizzazione 2030 rappresenta la nuova strategia globale per non lasciare nessuno indietro”; “offrire servizi vaccinali efficaci, efficienti e resilienti accessibili per tutti”; “promozione delle vaccinazioni durante tutto il corso della vita, anche rafforzando le collaborazioni con attori non sanitari”, ecc.. Purtroppo queste dichiarazioni di intenti non sono tradotti nella concreta e fattuale decisione su quali vaccini proporre, a chi sarebbero utili e con quale rapporto tra benefici e rischi.

Un certo tipo di “ideologia vaccinista” continua a considerare la somministrazione di vaccini come se fosse sempre e indiscutibilmente utile al singolo e alla collettività, ricorrendo alla cosiddetta “protezione comunitaria” (altrimenti detta “immunità di gruppo” o “di gregge”) senza precisare di quali vaccini si stia parlando e in base a quali dati epidemiologici.

Ad esempio, nel documento si legge che “Ciò costituisce quel valore sociale della pratica vaccinale, espresso dal fenomeno della protezione comunitaria tramite il raggiungimento di un’elevata copertura vaccinale.” Gli autori del documento omettono di dire che molti dei vaccini in uso possono dare una protezione individuale (anche se il rapporto benefici/rischi andrebbe valutato, appunto, individualmente), ma non hanno alcuna possibilità di realizzare il fenomeno della “protezione comunitaria”: questo vale certamente per i vaccini del tetano, difterite, polio IPV, epatite B, pertosse, meningite, influenza e probabilmente anche per quello della parotite, che ha mostrato di decadere rapidamente tanto che si sono verificate epidemie tra gli studenti universitari.

In poche parole: la tesi è che più si vaccina e meglio è. Manca l’analisi dei risultati finora conseguiti (in termini di efficacia e di sicurezza) e mancano dati analitici e previsioni nel concreto dell’efficacia delle misure proposte. Il lettore dovrebbe convincersi che i vaccini sono buoni e utili “a prescindere” dai dati epidemiologici per ciascun vaccino, che non sono forniti.

Anche la lunga digressione sul pronunciamento del Comitato Nazionale di Bioetica non sfugge a tale impostazione generica e in quanto tale anche fuorviante dai veri problemi. Ad esempio, si legge: “In particolare, è necessario mobilitare i medici e le strutture sanitarie del territorio e promuovere efficaci campagne d’informazione, comunicazione ed educazione finalizzate a illustrare l’importanza delle vaccinazioni a livello individuale e collettivo e a richiamare i cittadini a scelte consapevoli e fondate su evidenze scientifiche nel proprio stesso interesse. A tale proposito, non si può non stigmatizzare il diffondersi di informazioni false e pregiudizi, come ad esempio l'esistenza di una presunta correlazione tra vaccinazioni e l’insorgenza di alcune patologie, ipotesi ampiamente smentite da innumerevoli studi scientifici.”

La genericità del documento si dimostra in tali affermazioni, che vogliono lasciar intendere che le vaccinazioni sono sicure forse perché non provocano “alcune patologie”, senza menzionare quali sarebbero e senza dire che altri studi scientifici (e i dati della farmacovigilanza attiva) dimostrano che alcuni vaccini possono provocare eventi avversi anche gravi.

Si ignorano persino le prescrizioni della legge “Lorenzin” n. 119/2017. All’articolo 1-ter si legge: “Sulla base della verifica dei dati epidemiologici, delle eventuali reazioni avverse segnalate in attuazione delle vigenti disposizioni di legge e delle coperture vaccinali raggiunte (…), il Ministro della salute, con decreto da adottare decorsi tre anni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto (…) può disporre la cessazione dell'obbligatorietà per una o più delle vaccinazioni ”.

Tale revisione prescritta per legge non è stata fatta, a distanza di quasi 6 anni dal varo della legge. In queste condizioni, come può uno Stato moderno formulare un piano vaccinale senza tener conto di quanto prescritto dalla stessa legge? Fra l’altro, ricordiamo che la Regione Veneto aveva impostato la propria strategia vaccinale sulla libertà informata di vaccinazione, sin dal 2007, con buoni risultati in termini di coperture e di epidemologia.

Il regime di obbligo vaccinale così come configurato dalla legge “Lorenzin” va superato, in quanto privo di reali prove di efficacia e sicurezza. Inoltre, è necessario che i medici siano realmente liberi se consigliare/prescrivere o meno la vaccinazione, considerando il caso individualmente e senza condizionamenti da parte degli ordini professionali. È pure fondamentale che siano resi disponibili test sierologici gratuiti per vedere se si è già immunizzati e vaccini monovalenti, per una più oculata scelta da parte del medico in relazione alle reali necessità della persona sua assistita.

La parte più lacunosa riguarda la cosiddetta farmacovigilanza. Si legge che “Per la sorveglianza post-marketing dei farmaci e dei vaccini, l’Italia e dotata di un sistema di raccolta delle segnalazioni degli eventi avversi, la Rete Nazionale di Farmacovigilanza, che fa capo ad AIFA ed costituita da una rete di Centri Regionali e Responsabili Locali di Farmacovigilanza per la registrazione degli stessi”. Questa e altre affermazioni generiche e apparentemente tranquillizzanti non sono accompagnate da alcun dato sulle reazioni avverse registrate da tale Rete.

Anche una minima conoscenza del problema e la lettura dei bollettini annuali dell’AIFA permette di sapere che la Farmacovigilanza in Italia è quasi esclusivamente passiva o “spontanea”, salvo qualche studio isolato. Un esempio clamoroso della differenza tra farmacovigilanza attiva e spontanea in Italia, nel campo delle vaccinazioni Morbillo-Parotite-Rosolia-Varicella (MPRV) è fornito dai dati dell’Osservatorio Epidemiologico della Regione Puglia, che ha svolto una indagine di farmacovigilanza attiva tramite diario dato ai genitori e compilato per i 20 giorni dopo l’inoculo.

In tal modo è stato documentato un tasso di 4.069 reazioni avverse gravi ogni 100.000 dosi iniettate, tra cui iperpiressia, sintomi neurologici, malattie gastrointestinali, pianto inconsolabile. Nella stessa Regione, la farmacovigilanza “spontanea” aveva rilevato solo 19,8 reazioni avverse gravi ogni 100.000 dosi, vale a dire 205 volte di meno.

Considerando la vigilanza attiva, l’unica attenibile, si può concludere che le reazioni avverse gravi ai vaccini MPRV sono della stessa grandezza o forse più numerose delle forme gravi delle malattie coperte da questi vaccini. La CMSI chiede da tempo programmi di sorveglianza attiva in campioni di popolazione rappresentativi, con risultati presentati separatamente da quelli di segnalazione spontanea, e ricerche metodologicamente corrette, che confrontino lo stato di salute generale dei bambini vaccinati rispetto ai non vaccinati.

Invece di procedere “alla cieca”, si dovrebbe cogliere l’occasione per studiare meglio l’esistenza di possibili fattori di rischio vaccinale («adversomica»), considerando, per il principio di precauzione, anche gli effetti avversi gravi che abbiano già colpito dei consanguinei della persona da vaccinare. Si dovrebbe avere anche molta più attenzione alle nuove patologie provocate dai vaccini biogenetici, riconoscendo l’esistenza dei numerosi “sfortunati” eventi mediante adeguate analisi e autopsie in caso di decesso.

Se lo Stato si rifiuta di considerare questo drammatico aspetto della problematica vaccinale, tradisce la fiducia da parte della popolazione e rinnega i principii fondanti della legge che già prevede l’indennizzo dei danneggiati.