Velo islamico, la Corte UE lo vieta per il motivo sbagliato: la laicità
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Dopo il ricorso di una musulmana, la Corte di Giustizia dell’UE ha assecondato la «rigorosa neutralità» di un Comune belga, che vieta segni religiosi vistosi. Per la Corte il motivo risiede nella laicità, declinata come indifferentismo o ateismo. Un motivo errato.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dovuto esprimersi sul seguente caso. «A una dipendente del Comune di Ans (Belgio) – leggiamo nel comunicato stampa della Corte – è stato vietato di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro. […] L’interessata intende ottenere l’accertamento della violazione della sua libertà di religione e della discriminazione da lei subita. […] La Corte risponde che la politica di rigorosa neutralità imposta da una pubblica amministrazione ai suoi dipendenti al fine di creare al suo interno un ambiente amministrativo totalmente neutro può essere considerata oggettivamente giustificata da una finalità legittima». La neutralità religiosa, sottolinea la Corte, può essere soddisfatta anche permettendo a ciascuno di indossare i propri simboli religiosi. I giudici europei alla fine hanno dato ragione all’amministrazione comunale per motivi attinenti alla cosiddetta laicità dello Stato. Secondo la dottrina cattolica e secondo la legge naturale la Corte di giustizia ha assecondato un divieto giusto, ma per motivi sbagliati. Cerchiamo di capirne la ragione.
Partiamo dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «Tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua Chiesa, e, una volta conosciuta, ad abbracciarla e custodirla» (n. 2104). La verità ha un nome e cognome: Gesù Cristo. Il quale disse: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Quindi, tutti devono convertirsi a Cristo e alla Chiesa cattolica da Lui fondata perché la religione cattolica è l’unica ad essere vera (cfr. Dominus Iesus, circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa; Dignitatis humanae, n. 1). Naturalmente tale obbligo morale non può che essere adempiuto per libera convinzione personale e quindi è eticamente vietata qualsiasi forma di costrizione in tal senso. Questa l’accezione valida dell’espressione “libertà religiosa”: ognuno ha il diritto di non vedersi costretto ad aderire alla Chiesa cattolica (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2108; Paolo VI, Discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura Romana, 20 dicembre 1976; Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005).
Se invece per “libertà religiosa” si intende il diritto a professare una religione diversa da quella cattolica, tale espressione è da rigettare perché erronea. Come infatti dichiara il Catechismo «il diritto alla libertà religiosa non è né la licenza morale di aderire all’errore, né un implicito diritto all’errore» (n. 2108). Non si può intendere la libertà religiosa come diritto soggettivo di professare una religione diversa da quella cattolica per consequenzialità logica. Il diritto soggettivo è una pretesa giuridicamente tutelata. È lecito pretendere solo il bene (ambito morale) e il vero (ambito teoretico). Ergo esiste solo il diritto alla verità (il diritto a cercare la verità), non il diritto all’errore (il diritto di professare l’errore). E dato che solo Cristo è la verità e tale verità per suo volere è custodita pienamente solo nella Chiesa cattolica, ne consegue che gli altri culti sono essenzialmente falsi. Ma se sono falsi non si può predicare un diritto alla falsità, all’errore dottrinale. E dunque non si può predicare una libertà di professare questi culti. In breve, la libertà scaturisce solo dall’adesione al bene e al vero.
Ma c’è di più. Credere in Cristo e nella sua Chiesa trasforma il cuore delle persone. Da un cuore cambiato si produrranno frutti di conversione, ossia anche le opere di chi è convertito cambieranno e in esse risplenderà la luce del Vangelo. Ma le opere contribuiranno a cambiare anche la società. Questo prende il nome di regalità sociale di Gesù Cristo. Dio chiede che anche i governi riconoscano la regalità di Cristo, nel rispetto delle competenze dello Stato (la dimensione temporale) e della Chiesa (la dimensione spirituale). Le altre religioni non si meritano quindi un formale riconoscimento giuridico. Così la Congregazione per la Dottrina della Fede: «Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio)» (Dominus Iesus, n. 4).
Da qui una domanda: un ordinamento giuridico che si ispirasse ai principi cattolici come dovrebbe comportarsi nei confronti dei culti falsi? Compito specifico del governante è il bene comune, ossia creare quelle condizioni che permettono a singoli, famiglie etc. di partecipare ai principi di morale naturale. Ma il governante cattolico sa che ogni realtà terrena, e quindi anche il bene comune, deve essere orientato al fine ultimo che è Dio. I culti erronei quindi dis-orientano il bene comune. Il governante perciò sarebbe chiamato a intervenire proprio perché la materia, sebbene in prima battuta riguardi la fede e quindi esuli dalla competenza dello Stato, ha poi ricadute sul bene comune.
Due in astratto potrebbero allora essere le scelte lecite del governante in merito ai culti falsi. La prima soluzione: vietarli. Ad esempio, se la diffusione di una certa religione storna la comunità dei credenti cattolici verso l’errore, oppure se il culto attenta a beni morali che interessano il bene comune (vita, libertà etc.). In astratto quindi uno Stato che si ispirasse ai princìpi cattolici potrebbe lecitamente vietare il velo islamico. Ma anche uno Stato ateo potrebbe vietare il velo islamico, perché tale simbolo non solo appartiene ad un culto falso, ma esprime un significato contrario alla legge naturale, al vero bene della persona: la donna è vista come inferiore all’uomo.
Seconda soluzione riguardo al rapporto tra uno Stato cattolico e un culto erroneo: tollerare i culti falsi. La tolleranza non significa assegnare il diritto a professare l’errore, ma astenersi dall’impedire con la minaccia della sanzione la pratica erronea. Il governante deve tollerare una certa condotta quando il divieto della stessa porterebbe più danni al bene comune rispetto alla condotta medesima (cfr. Tommaso d’Aquino [1225/1226-1274], Summa Theologiae, I-II, q. 101, a. 3; q. 96, a. 2, ad 2; q. 91, a. 4; II-II, q. 77, a. 1; q. 78, a. 1; Agostino di Ippona, De Ordine, II, 4). Ciò potrebbe accadere anche nel caso in cui il culto falso distraesse molti credenti dalla vera fede: vietare tale culto al giorno d’oggi probabilmente potrebbe provocare più danni che effetti positivi anche in relazione all’efficacia dello sforzo di evangelizzazione profuso dagli stessi cattolici.
Così Pio XII: «Quindi l’affermazione: il traviamento religioso e morale deve essere sempre impedito, quando è possibile, perché la sua tolleranza è in sé stessa immorale – non può valere nella sua incondizionata assolutezza. […] Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può quindi essere una ultima norma di azione. Esso deve essere subordinato a più alte e più generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore il non impedire l’errore, per promuovere un bene maggiore» (Discorso ai giuristi cattolici, 6 dicembre 1953). Paolo VI, ai suoi tempi, registrava un sentito comune secondo il quale «risulta che ogni religione de facto, dev’essere rispettata e protetta dallo Stato, nell’ordinato esercizio delle sue attività, nell’ambito dell’ordine pubblico e nel rispetto delle opinioni altrui. Questo stato di cose è senz’altro accettato oggi dalla Chiesa, che lo definisce piuttosto “tolleranza” che diritto naturale» (Annotationes Manu Scriptae, De libertate religiosa, 6/05/1965).
In tal senso il velo, anche per un ordinamento giuridico che si ispirasse alla dottrina cattolica, potrebbe lecitamente venire tollerato se il suo divieto provocasse più danni al bene comune di quelli che si vogliono eliminare (sommosse popolari, tensioni tra Paesi, etc.). La tolleranza sarebbe oggi la soluzione da preferire nella maggior parte dei casi: meglio la persuasione culturale che la sanzione penale.
In sintesi, si potrebbe vietare il velo sia perché espressione di un culto falso (motivazione attinente alla fede), sia perché contrario alla dignità personale della donna (motivazione attinente alla morale). Oppure si potrebbe tollerarlo se il gioco non valesse la candela. La Corte invece avalla il divieto perché antepone al fenomeno religioso la laicità dello Stato considerata come sano indifferentismo religioso, ossia privilegia la neutralità atea. Via qualsiasi simbolo religioso così da far posto al simbolo ateo per eccellenza: il nulla.