Vaticano e Cina verso la normalizzazione. Una scommessa pericolosa
Ascolta la versione audio dell'articolo
Il cardinale Zuppi andrà in Cina, per una mediazione sulla guerra in Ucraina. Ma per il futuro si pensa all'apertura di un "ufficio stabile di collegamento della Santa Sede in Cina". Una via per la normalizzazione delle relazioni, a scapito di Taiwan.
La notizia del momento sui media che seguono l'informazione vaticana è l'imminente viaggio del cardinale Matteo Maria Zuppi a Pechino. Al momento non esiste una comunicazione ufficiale sulla nuova missione del presidente della conferenza episcopale italiana, ma è stata confermata dal cardinale Pietro Parolin in un incontro informale, off the record, tenutosi tra i giornalisti accreditati presso la Città del Vaticano e il segretario di Stato della Santa Sede.
Qual è lo scopo della visita? Dopo i viaggi in Ucraina, Russia e Stati Uniti, l'arcivescovo di Bologna dovrebbe visitare la Cina comunista, per continuare il suo impegno per la pace attraverso una “missione umanitaria”. Di un viaggio a Pechino nell’ambito della missione per la crisi ucraina si era parlato subito dopo l’incontro a Washington con il presidente Joe Biden. Ora c’è la conferma. Non si tratta solo di riconoscere il ruolo indiscutibile che Pechino può avere nella crisi ucraina, tenendo conto anche dell’appoggio discreto che la Cina sta offrendo alla Russia. Piuttosto è un riconoscimento del ruolo internazionale di Pechino tout court, una novità non da poco tenendo conto che Santa Sede e Cina popolare non hanno rapporti diplomatici. Ovviamente non sarebbe la prima volta di esponenti vaticani in Cina, ma finora si trattava di missioni particolari legate ai colloqui per la situazione della Chiesa in Cina o di partecipazioni a convegni internazionali.
La data esatta del viaggio non è ancora nota, ma gli ambienti vaticani lo considerano già un dato di fatto, visto che la Repubblica Popolare Cinese ne avrebbe confermato la disponibilità. Resta da precisare la modalità della visita e chi accoglierà l'uomo di Sant'Egidio, una comunità che non è ostile al regime comunista. In ogni caso dipenderà molto dalla Cina il valore da attribuire a questa visita del cardinale Zuppi, chi lo accoglierà e quanto tempo gli sarà concesso.
Ma allo stesso tempo è chiaro che è impossibile immaginare una visita dell' “inviato del papa” a Pechino senza attribuirgli anche una “missione politica” che riguarda i rapporti bilaterali Cina-Santa Sede, soprattutto dopo che papa Francesco ha compiuto un gesto estremamente conciliatorio nel riconoscere Giuseppe Shen Bin come vescovo di Shanghai, nominato unilateralmente dal regime cinese lo scorso aprile.
Come si ricorderà l’annuncio della nomina era stato accompagnato da una intervista ad hoc al cardinale Segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, il quale auspicava innanzitutto che Pechino non procedesse con nomine unilaterali dei vescovi in violazione degli accordi provvisori segreti firmati nel 2018 e rinnovati nel 2020 e 2022. Parolin inoltre indicava tre questioni da risolvere attraverso il dialogo con il governo cinese: «la Conferenza episcopale; la comunicazione dei vescovi cinesi con il Papa; l’evangelizzazione». Ma soprattutto lanciava una proposta audace quanto pericolosa, «l’apertura di un ufficio stabile di collegamento della Santa Sede in Cina».
Questo quindi è presumibilmente parte dell’ordine del giorno che il cardinale Zuppi vorrebbe affrontare con le autorità cinesi. Il fatto che sia stato il cardinale Parolin a dare i temi e ad annunciare il viaggio significa che ci tiene a sottolineare che il tutto si svolge in sintonia e sotto la regia della Segreteria di Stato e non scavalcandola, ma su questo saranno i fatti a parlare.
Fatto sta però che la proposta dell’apertura di un ufficio vaticano a Pechino suona come il tentativo di iniziare un percorso che porti alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche e allo spostamento della nunziatura da Taiwan alla Cina popolare. Mossa rischiosa visto che finora il regime comunista non ha offerto alcun segno che manifestasse interesse a questo tipo di dialogo e, anzi, con le sue azioni dimostra tutt’altro.
Ricordiamo che Pechino ha posto due condizioni per riallacciare i rapporti con la Santa Sede: che essa “non interferisca negli affari religiosi in Cina” e che, in accordo con la politica One China di Pechino, rompa i rapporti diplomatici con il governo taiwanese. Un rapporto iniziato nel 1942 e consolidatosi nove anni dopo, con l'espulsione da Pechino dell'arcivescovo Antonio Riberi e che ha portato all'insediamento definitivo della nunziatura a Taipei.
Come più volte abbiamo ricordato il vero problema consiste nella mancanza di qualsiasi volontà da parte del regime comunista di concedere anche solo un minimo di libertà ai cattolici cinesi di seguire la propria fede in comunione con la Chiesa universale (le persecuzioni si sono addirittura intensificate dopo la firma degli accordi del 2018), a fronte di una Santa Sede che invece è disposta a concedere tutto, come ha più volte denunciato anche il vescovo emerito di Hong Kong, cardinale Joseph Zen.
Nonostante la retorica del regime comunista cinese, la realtà è che Taiwan non è solo un Paese autonomo con una democrazia forte che rispetta i diritti umani e quindi rispetta anche le libertà religiose. Nel mondo cinese è l'unico alleato affidabile per una Chiesa che soffre una vertiginosa e inarrestabile sinizzazione. È quella luce di libertà che va protetta e rafforzata perché illumini tutto il popolo cinese, non il contrario.