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POLITICA

Varato il governo Monti-bis

L'attribuzione dei ministeri chiave nell'esecutivo di Letta non lascia spazio a dubbi: siamo di fronte a un governo "tecnico", guidato da rappresentanti non eletti ma indicati dall'ordine costituito laico-borghese. Con i cattolici lontani dalle materie di loro interesse, a fare i parafulmini.

Politica 28_04_2013
La presentazione del governo Letta

Quando lo scorso 25 aprile, alla notizia del suo incarico, avevamo delineato in queste pagine un quadro della personalità politica di Enrico Letta e delle sue matrici culturali (clicca qui per legegre l'articolo) qualche lettore ha poi scritto dicendo di non ritenere giusto pre-giudicarlo in base al suo passato (il che in linea di principio è certamente vero). Quando però  ieri a Roma egli ha presentato il suo governo,  sin dai primi nomi è apparso subito chiaro che l’eventuale speranza di una sua qualche sorprendente svolta in senso democratico-popolare andava rimandata a una futura occasione.

L’uomo ha fatto esattamente il governo che ci si poteva attendere da lui: un governo nient’affatto “politico” ma anzi forse ancor più “tecnico” di quello di Mario Monti, almeno se per “tecnico” si deve intendere (come Monti e i suoi patroni intendevano) un organismo caratterizzato dalla presenza in ruoli-chiave di rappresentanti non eletti ma autorevolmente indicati dall’ordine costituito laico-borghese.

Se infatti -- lasciando da parte il folclore del “politically correct” e dei rappresentanti ufficiali dei partiti impegnati a sostenerlo -- si va a vedere a chi nel nuovo governo Letta sono stati affidati i posti-chiave, il quadro che si delinea non lascia dubbi: siamo nelle mani da un lato del potere burocratico centrale e dall’altro della storica “razza padrona” del nostro Paese, ovvero la borghesia laica-progressista di tradizione risorgimentale, oggi più che mai alleati tra loro a difesa dello statalismo in ogni sua forma e quindi tra l’altro della gestione centralizzata della spesa pubblica costi quel che costi, ovvero anche al costo di una sua crescita senza fine.

Si pensi in primo luogo al principale fra i posti-chiave, quello di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, affidato a Filippo Patroni Griffi, l’alto burocrate che nell’uscente governo Monti fu il regista della tentata inutile e costosa riforma delle Province, ottimo diversivo per stornare l’attenzione dalla vera e sostanziale riforma che sarebbe tutta da fare, ossia quella dell’amministrazione centrale dello Stato, dei ministeri e della miriade di enti centrali statali e para-statali.

Seguono un prefetto, il direttore generale della Banca d’Italia, il presidente dell’Istat e così via, a rigorosa tutela di ogni segmento della galassia burocratica romana.

Che poi il ministero degli Esteri sia stato affidato a Emma Bonino, persona di molte idee la maggior parte delle quali risale tuttavia all’epoca di Voltaire, la dice lunga sul peso che in questo governo si è inteso attribuire a quella “razza padrona” di cui si diceva, cui si è così generosamente concesso quanto da sempre pretende, ovvero di pesare molto di più di quanto conti in termini di consensi elettorali.

La vera “cabina di regia” (si fa per dire) della politica economica del nuovo governo in tema di sviluppo economico  è tutta fatta da burocrati romani e da cattedratici dell’Italia peninsulare,  senza alcuna presenza significativa da quei mondi e da quelle regioni che sono il vero cuore dell’economia italiana.

Sul “modello Monti” è stata anche modulata la presenza dei cattolici: guai a dargli dei ministeri che riguardino materie su cui potrebbero creare dei fastidi, come ad esempio la sanità e la scuola (dove si è stati bene attenti a mettere un guardiano inflessibile del monopolio statale dell’educazione). Meglio mandarli a fare i parafulmini, se non nel peggiore dei casi i possibili capri espiatori, affidando loro ministeri definanziati, come fece Monti; oppure, tanto per fare due esempi a caso, ministeri dove facilmente andranno a scornarsi  con l’India sulla questione dei due marò o con i “No-tav” su quella dei cantieri in Val di Susa. Così stanno ancora una volta le cose ma, come già scrivevo in altra occasione, sarà anche per colpa loro, ma prima di tutto è per colpa nostra.

Tutto ciò premesso non è comunque il caso di scoraggiarsi. Qualcosa di buono per il bene comune si potrà ricavare anche in una situazione come questa se si procede a occhi aperti, senza mai subordinare la strategia alla tattica e senza mai vendere alcuna primogenitura per alcun piatto di lenticchie.