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Vangelo di Giovanni, veridicità confermata da altre fonti giudaiche

La più grande esperta del Giudaismo dell'epoca del Secondo Tempio, Jacqueline Genot-Bismuth, ha potuto confrontare i racconti del Vangelo di Giovanni con altre fonti giudaiche, constatando che sono in linea con le tradizooni e gli usi giudaici, e concludendo che Giovanni è un testimone attendibile e preciso degli eventi che riguardano Gesù.

Catechismo 05_06_2022
Il processo a Gesù nel Sinedrio

Lo sguardo senza pregiudizi di chi valuta le cose fuori dal sistema delle facoltà teologiche, e persino del mondo cristiano. Jacqueline Genot-Bismuth (1938-2004) ha insegnato per anni alla Sorbona, sulla cattedra di Giudaismo antico e medievale. Esperta come pochi altri del giudaismo dell’epoca del Secondo Tempio (VI sec a. C. – I sec. d. C.), si appassiona al lavoro di ricostruzione del testo ebraico sotteso a quello greco iniziato da Claude Tresmontant (1925-1997) e nel 1986 pubblica il frutto del suo lavoro, la monografia Un homme nommé Salut. Genèse d’une hérésie à Jérusalem.

Il quinto ed ultimo capitolo del libro è dedicato al Vangelo di Giovanni. L’autrice porta alla luce delle evidenze intrinseche al testo che portano a concludere che gli originali del quarto Vangelo – ossia due testi ebraici che contenevano rispettivamente una relazione degli avvenimenti della vita di Gesù e una raccolta delle sue parole - «essendo stati composti a caldo da un testimone diretto, un discepolo del didaskalos Gesù, con ogni probabilità non possono essere che in accordo con le realtà culturali, sociologiche, perfino affettive che caratterizzavano quel contesto e che noi ci siamo impegnati a far rivivere» (p. 209), proprio nel libro citato.

Secondo l’autrice, Giovanni dimostra di essere un letterato, appartenente alla classe sacerdotale, che fece per Gesù quello che lo scriba Baruch ben Neriah realizzò nei confronti del profeta Geremia, ossia mettere per iscritto i suoi insegnamenti ed i fatti più importanti della sua vita. Genot-Bismuth mostra ampiamente come Giovanni sappia muoversi con estrema agilità tra le feste del calendario ebraico, le vie di Gerusalemme e i dibattiti “teologici” dell’epoca, che solo un contemporaneo appartenente a quel contesto poteva conoscere con tanta precisione. Ed il suo Vangelo ne dà precisa testimonianza, armonizzandosi non solo con le recenti scoperte archeologiche, ma anche con quel particolare milieu religioso e culturale della Palestina del I secolo d. C., sempre meglio tratteggiato dagli studi storici.

In particolare, la cronologia della vita di Gesù che risulta dal quarto Vangelo, cronologia unica rispetto ai sinottici, in quanto “spalma” la vita pubblica di Gesù in un arco di tempo di due anni e due settimane, comprendente tre Pasque, risulta «così naturalmente ancorata al tempo ordinario, che non può essere stata inventata; questa autenticità trasuda troppo naturalmente da tutti i pori del testo per essere del folklore locale, dell’esotismo, messo apposta, per dare l’apparenza del vero, da un non meglio precisato pagano greco, foss’anche letterato, che più tardi, forse un secolo dopo, avrebbe composto questo Vangelo così com’è» (p. 253).

Troppi dunque i dettagli che collimano perfettamente con quanto risulta da altre fonti giudaiche. È in particolare la lunga procedura di accusa di Gesù da parte dei membri del Sinedrio, come riportata dal racconto di Giovanni, ad avere delle corrispondenze molto precise con il contesto storico-giuridico. Il primo grave scontro con il Sinedrio avviene a Gerusalemme, durante la festa di Sukkot, la prima delle due di cui parla Giovanni. Siamo al capitolo 5. Gesù non solo guarisce il paralitico presso la piscina di Betzaetà, ma gli ordina, in giorno di sabato, di prendere la sua barella e camminare. Secondo il trattato Sanhedrin (7, 4), Gesù infrange la diciottesima delle trasgressioni punibili con la pena di morte. La disputa che segue immediatamente la guarigione, si inserisce perfettamente nella procedura che il Sinedrio doveva compiere, per capire quale fosse il grado di volontarietà dell’atto compiuto. I membri del Sinedrio sono convinti che, nel caso di Gesù, si tratti di bezadon, ossia trasgressione con premeditazione, che prevedeva appunto la morte, alla quale va aggiunta l’accusa altrettanto grave di blasfemia, perché Gesù si faceva uguale a Dio (cf. Gv 5, 16-18).

Anche la risposta di Gesù si comprende solo nel quadro della duplice significazione dello shabbat. In Esodo 20 si sottolinea infatti il riposo dall’opera della creazione, mentre in Deuteronomio 5 c’è il richiamo al ricordo di essere stato schiavo in Egitto e di essere stato liberato dalla mano di Jahvé. Nella tradizione ebraica lo Shabbat Ha-Gadol è il sabato del 10 di Nissan, che aveva preceduto l’uscita dall’Egitto avvenuta il 15 dello stesso mese.
Secondo la tradizione, in quel giorno gli ebrei “trasgredirono” il riposo sabbatico per procurarsi, secondo il comando di Mosè, degli agnelli, che sarebbero poi stati sacrificati e il loro sangue posto sull’architrave delle porte. In questo giorno, agli egiziani che volevano avventarsi contro gli ebrei per non permettere di sacrificare quegli animali per loro legati alla divinità, fu miracolosamente impedito di agire. È questo il grande miracolo che rende appunto grande (Ha-Gadol) questo Shabbat. Nella sua risposta, Gesù si rifà a questa tradizione, rivendicando di operare come il Padre suo (5, 17), che aveva operato questo miracolo, e accusando i membri del Sinedrio di non ascoltare Mosè (5, 45-47), il quale diede appunto un comando di apparente trasgressione del sabato. La difesa di Gesù risulta così perfettamente congruente con questa tradizione non contenuta nelle Scritture.

Non meno interessante è la corrispondenza tra il racconto giovanneo che va dalla risurrezione di Lazzaro fino alla crocifissione con il trattato Sanhedrin del Talmud di Babilonia. Giovanni fa notare che la sentenza capitale venne pronunciata da Caifa proprio dopo lo strepitoso miracolo (11, 45-52), sul finire dell’inverno. Il Sanhedrin riporta che Gesù fu ucciso alla viglia di Pasqua, il 14 Nisan, dopo che per quaranta giorni il banditore pubblico aveva proclamato pubblicamente che Gesù il Nazareno doveva essere lapidato per aver incitato a rinnegare il culto del vero Dio. L’unica differenza è che il trattato non riporta la scelta del Sinedrio di addossare ai Romani l’esecuzione della condanna; condanna che venne dunque eseguita con la crocifissione e non con la modalità giudaica della lapidazione. Se dal 14 di Nisan sottraiamo 40 giorni, arriviamo al 3 di Adar, che si colloca nella seconda metà di febbraio, sul finire dell’inverno appunto. Periodo che corrisponde con la cronologia giovannea. Gesù infatti sfuggì all’ultimo tentativo di lapidazione che avvenne d’inverno (cf. Gv 10, 22-39) e poi si nascose per un po’ al di là del Giordano, per ritornare in Giudea solo in occasione della morte di Lazzaro, quando la primavera era quasi alle porte.

In un'altra preziosa pubblicazione, Jérusalem ressuscitée. La Bible hébraïque et l’Evangile de Jean à lépreuve de l’archéologie nouvelle, la professoressa Genot-Bismuth riporta innumerevoli passi tratti da testi ebraici, che confermano e chiariscono soprattutto i passaggi più difficili del quarto Vangelo. Giovanni mostra di essere ben addentro al medesimo contesto religioso culturale che ha prodotto questi testi, soprattutto per la semplicità con cui le dà per scontate. «Da qualunque parte si prendano le cose, la serie di indizi di autenticità del racconto di Giovanni si rafforza grazie a delle convergenze oggettive. Sono certamente le realtà storiche concrete, oggi palpabili nella memoria materiale della città, finalmente portata alla luce dagli scavatori, ma anche illuminate dall’analisi dei dati istituzionali consegnati nella Tosefta o nella Mišna, che risultano essere le vere chiavi di indicazioni puntuali, così precise, e delle quali tuttavia non si comprende più la ragion d’essere, che fanno di Giovanni un testo oscuro, intrecciato d’allusioni ermetiche, frustrante in verità per la sua densità intuita ma indecifrabile» (p. 231).