Usa, la rieducazione degli psicologi "omofobi"
Sentenza in California: gli omosessuali minorenni che desiderano diventare etero non potranno più ricorrere alle terapie riparative. Viceversa, i minori potranno sempre essere seguiti da psicologi se vogliono cambiare sesso.
Il 29 agosto 2013 la Corte d’Appello Federale per il Nono Circuito degli Stati Uniti, competente per la California, ha reso pubblica un’attesa sentenza sulla legittimità e la costituzionalità di una legge californiana – la prima del genere negli Stati Uniti, seguita lo scorso 19 agosto da una analoga del New Jersey – che dichiara illegale l’uso delle terapie riparative per pazienti minorenni. Gli psichiatri e psicologi che offrono queste terapie a minori rischiano la perdita della licenza professionale e anche il carcere. Come è noto, le terapie riparative sono quei metodi psico-terapeutici che mirano ad aiutare le persone che percepiscono come un problema il loro orientamento omosessuale e desiderano cambiarlo.
Le terapie riparative sono al centro di una grande polemica internazionale, di cui anche la nostra testata si è occupata, e toccano un nervo scoperto della comunità degli attivisti gay. In Italia la semplice menzione di queste terapie da parte del vice-presidente dei Giuristi Cattolici, l’avvocato Giancarlo Cerrelli, in una trasmissione televisiva, ha scatenato un’aggressione senza precedenti nei confronti del giurista, di cui pure abbiamo avuto occasione di occuparci. Non ripeterò in questa occasione – né ne avrei la competenza – gli argomenti sul carattere non scientifico, ma piuttosto ideologico, dell’aggressione contro le terapie riparative che uno psicologo ha esposto sulla Nuova Bussola Quotidiana lo scorso 27 agosto, in polemica con il presidente dell’Ordine degli Psicologi – e già candidato (trombato) nella lista di Nichi Vendola alle elezioni regionali pugliesi del 2010 –, il dottor Giuseppe Luigi Palma, che era stato tra i più violenti nell’attacco a Cerrelli. M’interessa invece qui commentare l’intervento del legislatore californiano – e di quello del New Jersey – in una controversia scientifica.
La Corte d’Appello del Nono Circuito stabilisce un principio molto pericoloso – tanto più in un Paese come gli Stati Uniti dove, felicemente, le decisioni delle associazioni professionali, spesso su questi temi ideologicamente orientate, sono meno cogenti che in Europa –, e cioè che le leggi e i tribunali hanno il diritto di rendere obbligatoria un’ortodossia scientifica stabilita dai gruppi maggioritari – o che si presentano come maggioritari – in una determinata branca della scienza. Di norma, afferma la sentenza, il diritto alla libertà di espressione negli Stati Uniti è assoluto. Benché nessuno scienziato affermi che la Terra è piatta, esistono curiose associazioni che insistono sul fatto che il nostro pianeta è proprio piatto, non è rotondo, e propagandando le loro idee non si va in prigione.
Ma c’è un ma. La Corte d’Appello spiega che le teorie anti-scientifiche non possono essere liberamente insegnate, e tanto meno se ne possono derivare conseguenze pratiche o terapeutiche, quando interferiscono con i diritti di categorie protette o favoriscono la discriminazione. Tra le categorie protette contro la discriminazione ci sono gli omosessuali, e la pratica delle terapie riparative implica necessariamente – afferma la sentenza – la tesi che l’omosessualità «sia una malattia», «non sia normale» o comunque sia una condizione meno positiva e desiderabile dell’attrazione verso persone dell’altro sesso. Questa opinione, oltre che «condannata dalla scienza», non è protetta dalla libertà di espressione, ma al contrario la sua manifestazione implicita o esplicita è vietata dalle leggi contro l’omofobia.
L’evidente obiezione è che se l’omosessualità sia una condizione «normale» e desiderabile, o se invece – come insegna per esempio il Magistero della Chiesa Cattolica – l’inclinazione omosessuale sia «oggettivamente disordinata» e «costituisca per loro [le persone omosessuali] una prova» (così afferma, al n. 2358, il «Catechismo della Chiesa Cattolica»), non è una questione che possa essere decisa esclusivamente dalla scienza psichiatrica, o da una maggioranza di psichiatri. Presenta profili che interessano la sociologia – la quale s’interessa della questione se esistano effettivamente gruppi di omosessuali che considerano la loro condizione «una prova» e preferirebbero cambiarla – la filosofia e anche la teologia. La questione è enormemente complicata e controversa. Come ha rilevato, intervenendo sul caso Cerrelli con un articolo su «Avvenire» del 29 agosto, lo stesso professor Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani – non proprio un talebano dell’opposizione alle leggi sull’omofobia e le unioni omosessuali, come sanno i nostri lettori – imporre per legge o affidare ai tribunali la decisione su quali opinioni siano lecite e quali no in questo campo costituisce una gravissima violazione della libertà di opinione e di espressione.
La sentenza californiana considera questa obiezione e risponde che la libertà di opinione non c’entra, in quanto la legge non vieta ai medici e terapisti di discutere in astratto le terapie riparative o di «scrivere un libro o tenere un comizio» dove affermano che le terapie riparative sono utili e funzionano, ma vieta loro soltanto di utilizzarle nella loro pratica medica e psichiatrica rivolta a minori. La risposta, anche qui, non è convincente: anzitutto perché, una volta stabilito che ogni affermazione in favore delle terapie riparative nasce necessariamente da un pregiudizio omofobo, l’espressione pubblica di questo pregiudizio – se non sarà colpita dalla nuova legge contro le terapie riparative – cadrà nell’ambito di applicazione delle leggi esistenti contro l’omofobia. In secondo luogo, perché è molto curioso riconoscere a un medico la libertà di affermare in pubblico che una certa terapia è benefica e utile, e nello stesso tempo vietargli di utilizzarla.
Si dovrebbe tenere conto anche della libertà del paziente di prestare il suo consenso informato a terapie che reputa utili a migliorare la sua condizione.
Curiosamente, la sentenza non insiste molto sul fatto che la legge californiana vieta solo di offrire le terapie riparative ai minorenni, ma non ne vieta l’uso con i maggiorenni. Certo è singolare che – mentre le possibilità di un sedicenne di prendere decisioni sulla sua vita si ampliano continuamente – l’unica scelta vietata è quella di intervenire per modificare il proprio orientamento omosessuale. C’è un clamoroso parallelo con la decisione di cambiare sesso: una pratica – come rivelò un’inchiesta televisiva della CBS nel 2012 – sempre più offerta a minorenni negli ospedali americani, per non parlare dell’accompagnamento psicologico di ragazzine teenager che si dichiarano lesbiche e sono «aiutate» ad adottare la nuova identità che si sono scelte.
Ma la sentenza non insiste su questo punto per una ragione politica. Sa bene che il divieto delle terapie riparative offerte a minorenni è solo il primo passo, e che le organizzazioni gay ora si battono per una legge che mandi in galera chiunque offra terapie riparative a persone omosessuali di qualunque età. Così recita il progetto di legge che ogni settimana in Gran Bretagna raccoglie nuove firme di membri del Parlamento di tutti i partiti, con il sostegno della stampa «politicamente corretta». E si ha l’impressione, leggendo tra le righe, che anche i giudici californiani ritengono che alla fine il problema sia culturale: occorre educare le minoranze non illuminate a capire che l’omosessualità non è un disagio, ma una condizione simpatica, gradevole e alla moda. Quando le leggi diventano strumento per rieducare chi è riluttante a entrare nel meraviglioso mondo del «politically correct» siamo sbarcati in quella che Benedetto XVI nell’enciclica «Caritas in veritate» chiama la peggiore delle ideologie: la tecnocrazia, dove le opinioni presentate come «scientifiche» sono imposte a tutti con la minaccia della galera, in una sinergia perversa fra tecnocrati in camice bianco e tecnocrati in toga, tristi gendarmi gli uni e gli altri della dittatura del relativismo.