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ELEZIONI USA

Usa, il giorno del voto. Le molte anomalie delle elezioni

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Impossibile prevedere l’esito del voto di oggi, negli Usa. Ma è possibile fare un punto della situazione sulla campagna elettorale più ricca di colpi di scena della storia contemporanea. Si parla solo di Trump, come se fosse un referendum pro o contro il tycoon.

Editoriali 05_11_2024
Usa, il giorno del voto. Le molte anomalie di una campagna

Impossibile prevedere l’esito del voto di oggi, negli Usa. I sondaggisti pare si siano messi d’accordo per affermare che Kamala Harris e Donald Trump siano testa a testa, con pochissimo vantaggio dell’uno sull’altra in tutti gli Stati in bilico (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania, Wisconsin). I rilevamenti erano sbagliati nel 2016, quando davano vincente Hillary Clinton su Trump. E non hanno indovinato del tutto neppure nel 2020, quando prevedevano una vittoria con ampio margine di Biden su Trump: la vittoria c’è stata ma talmente risicata che tuttora l’ex presidente repubblicano la mette in dubbio.

Sebbene l’esito di queste elezioni sia imprevedibile, è però già possibile fare un punto della situazione sulla campagna elettorale più ricca di colpi di scena della storia contemporanea, con due tentativi di attentato contro Donald Trump, un ritiro a primarie già concluse di Joe Biden e la sua sostituzione in corsa con la vice Kamala Harris, i colpi bassi, le battute, la paura che nessuno dei due contendenti riconosca la vittoria dell’altro, obbligando gli Usa a subire uno stallo istituzionale.

La narrazione dei media è stata a senso unico, con poche eccezioni. Sia i media di destra che quelli di sinistra hanno concentrato l’attenzione su un solo candidato: Donald Trump. Più che un'elezione, una scelta fra due candidati, parrebbe un referendum pro o contro il tycoon. E la centralità dell’ex presidente è dimostrata anche dal fatto che negli endorsement a Kamala Harris, da ultimo quello dell’attore Harrison Ford, sono dichiarazioni di ostilità a Trump. Chi sostiene la candidata democratica dichiara che Trump è una minaccia per la democrazia, ad esempio, o che è un fascista, o che il futuro degli Usa è in pericolo. Ma sempre di Trump si parla, comunque.

Il tycoon è protagonista di un film girato contro di lui, The Apprentice, dove si espone la spietatezza del suo apprendimento del mestiere di palazzinaro in una New York corrotta e violenta. Il regista Paul Schrader dichiara di essere uscito dalla sala indignato, non perché non gli piacesse il film, ma perché non poteva sopportare la sola vista di Trump (pur interpretato dal bravo Sebastian Stan). Contro la sua candidatura si sono scatenate tutte le forze istituzionali e non degli Stati Uniti: due impeachment (record assoluto), quattro processi ancora in corso (una condanna di primo grado), due attentati falliti di cui uno letteralmente per miracolo.

Eppure è riuscito a vincere le primarie ed è arrivato, oggi, vivo e libero, al giorno delle elezioni per cercare di tornare alla Casa Bianca. In tutti i modi si è cercato di dire che fosse un golpista (per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio), dunque la sua candidatura fosse illegittima. Tuttora l’argomento principale è che sia un aspirante dittatore. Eppure, delle due l’una: o non lo è (e non lo è stato nella precedente amministrazione), oppure il sistema americano, ammettendolo, dimostra di non avere difese. In entrambi i casi, la narrazione contro Trump è fallita.

L’altra anomalia è una strana rimozione che riguarda Kamala Harris. In questi quattro anni è stata la vicepresidente di Joe Biden e aveva piena autorità sulla gestione dell’immigrazione. Eppure viene presentata come una candidata nuova, come se non avesse mai preso parte a questa amministrazione. Inflazione, immigrazione incontrollata e caos nelle relazioni internazionali sono i tre argomenti usati dalla campagna repubblicana contro l’amministrazione Biden/Harris. Su nessuna di queste tre politiche, la Harris ha mai contestato il suo presidente, dimostrando così di essere in perfetta continuità.

Infine, l’altra grande anomalia di questa campagna è il dibattito sull’aborto. La Corte Suprema, con la sentenza Dobbs, ha rimandato agli Stati la decisione se legalizzarlo o meno. La Harris promette di farne un diritto federale. Ma non spetta al presidente introdurre una nuova legge. Spetta semmai al Congresso, oppure a una nuova sentenza della Corte Suprema stessa. Altrimenti, come già avviene, il dibattito sulla legalizzazione spetta agli Stati singoli. La candidata democratica, dunque, promette qualcosa che può al massimo incoraggiare, ma non attuare, a meno di non commettere gravi invasioni di campo nel potere legislativo e in quello giudiziario.

Si può dire che sia quantomeno strano che un ex presidente, Barack Obama, abbia fatto campagna tutti i giorni per Biden e poi per la Harris e abbia avuto una parte importante nella decisione di indurre il presidente al ritiro dalla corsa. Di solito un ex inquilino della Casa Bianca si ritira a vita privata, così è stato fino a Obama. Bush non ha neppure detto per chi voterà. Però a Obama si perdona tutto: mai nessuno che abbia contestato un comportamento così anomalo.

Il suo attivismo dà l’idea di che cosa, esattamente, stia generando queste anomalie: a sfidare Trump non c’è semplicemente Kamala Harris, ma tutto l’apparato del Partito Democratico e i suoi numerosi alleati nelle istituzioni, nei media e nel mondo della grande imprenditoria. Un apparato abbastanza forte da indurre Joe Biden a farsi da parte e lasciare spazio alla “novità”. Ed è un apparato che non vuole lasciare il potere. Dall’altra parte, invece, il Partito Repubblicano sembra estinto, esprime solo Trump.