Un'America spaccata è ancora in attesa del presidente
Non è ancora possibile sapere chi sarà il prossimo presidente. Di sicuro Biden non ha ottenuto quella vittoria rapida che i sondaggi pronosticavano e si è infranta "l'onda blu" prevista da tutti i grandi media. Emerge ancor più chiaramente il quadro di un'America spaccata su più fronti: la differenza fra una popolazione urbana relativista e una rurale religiosa, le coste liberal e un entroterra repubblicano nel Sud e in parte del Midwest. E anche le minoranze etniche si stanno colorando di rosso, il colore repubblicano. In ogni caso Trump, dato per spacciato, porta invece a casa una vittoria morale, tenendo duro fino all'ultimo.
ABBY JOHNSON: "HA FATTO PIU' TRUMP PER IL NASCITURO DI TUTTI GLI ALTRI PRESIDENTI" di Valerio Pece
No, l’articolo che state per leggere non inizia con «Spoiler Alert». In un mondo zeppo, e pure ammalato, di informazioni, e di disinformazione, è infatti praticamente impossibile essere originali (sempre ammesso che l’esserlo sia automaticamente una virtù). Insomma, dopo una notte (ora italiana) di battaglia appassionante metro per metro, la notte (ora americana) tiene ancora gelosamente riservato il nome del 45° presidente federale. Il risultato è congelato, dalle 7 o 8 di questa mattina (ora italiana) sui 238 voti elettorali per Joe Biden contro i 213 di Donald J. Trump sui 270 necessari per ottenere la Casa Bianca (così, almeno, Fox News, mentre CNN dice 224 a 213 e Real Clear Politics 225 a 213, a seconda che le proiezioni di voti in alcuni Stati vengano considerate tombali oppure no). Dati di fatto oggettivi su cui ragionare in attesa dell’esito finale però ce ne sono, e quale che sia il nome del nuovo presidente non verranno cancellati.
Primo, il presunto, e millantato, vantaggio clamoroso fatto di cifre doppie, 10, 12, magari persino 14/15% di Biden su Trump non c’è stato, probabilmente mai. Ovvero flop totale. Di chi? Dei sondaggisti e del coté Biden, che già dava per scontata la vittoria. Dopo la “Caporetto” del 2016, i sondaggisti americani sono dunque solo braccia sottratte all’agricoltura oppure c’è malizia per orientare il voto, visto che, negli Stati Unti, l’«early vote» e, soprattutto quest’anno, il voto per via postale (all’apertura del primo seggio sulla Costa orientale avevano già votato in busta chiusa circa 100 milioni di americani) è enorme. Come che sia, l’«onda blu» (dal colore usato per contraddistinguere i Democratici, il rosso è il colore dei Repubblicani) non c’è stata, non c’è e non ci sarà. Inevitabilmente sarà una vittoria ai punti, di margine stretto, se non strettissimo, e questo la dice lunga sullo stato del Paese.
Secondo, il Paese è diviso e la polarizzazione è nettissima sul piano geo-sociologico. Il divario fra gli elettori si valuta cioè in termini di “tipi umani” che abitano “luoghi topici”. Ora, questi “tipi umani” (si veda più oltre, al quinto punto) sono tali per forte caratterizzazione ideale ovvero ideologica. La linea di demarcazione corre, per intendersi, fra “città” e “campagna”, ovvero “provincia”, «America profonda» e «Heartland America». Il vantaggio ristretto che si sta registrando ora (e che resterà agli atti) in alcuni Stati quest’anno decisivi (per esempio il Wisconsin), e persino in alcune aree del Paese che sono passate da Repubblicane a Democratiche (per esempio in Arizona e in Nebraska) è dovuto esattamente a questo fatto. Stati che per tutta la notte hanno fatto registrare vantaggi, talora pure consistenti, per Trump hanno poi assottigliato le differenze grazie agli scrutini delle grandi città. Questo vale per tutti gli Stati, anche quelli graniticamente Repubblicani, ovvero conservatori. Non è l’apologo del topo di campagna e del topo di città, ma negli Stati Unti di oggi il “tipo di città” è, mediamente, il borghese ricco (o benestante), liberal e relativista, intriso di filoabortismo, gender e cose così, laddove il “tipo di campagna” resta mediamente più legato a valori naturali e tradizionali. E chiunque intende bene cosa si voglia evocare qui dicendo «ricco» (o «benestante»), «borghese» e «campagnolo». Ovvio, la propaganda progressista traduce dicendo che Trump è il capobastone dei bifolchi, laddove Biden incarna il moderatismo illuminato, ma sono pose radical chic.
Terzo, la divisione descritta ripercorre fratture storiche del mondo americano, ma non solo. La cesura, oramai atavica, fra Stati del sud e Nuova Inghilterra esiste ancora. Nel cuore della notte (italiana) elettorale The Wall Street Journal titolava, scontatamente, se si vuole, ma significativamente, «Trump vince nel Sud, Biden si aggiudica la maggior parte del Nordest». L’evoluzione della nottata ha fagocitato quel titolo, ma il punto resta, e c’è anche altro. C’è infatti il Midwest e ci sono gli Stati della cosiddetta «Rust Belt»: Pennsylvania, Ohio, Indiana, la parte meridionale della penisola del Michigan, l’Illinois settentrionale e il Wisconsin nordorientale. Nel 2016 una parte rilevante della «Rust Belt» consegnò (“a sorpresa”) la vittoria a Trump e anche quest’anno il vincitore si deciderà lì: con Ohio e Indiana già a Trump, Illinois a Biden e Wisconsin in bilico, Michigan e soprattutto Pennsylvania faranno il presidente. Ora, il voto decisivo nella «Rust Belt» è ‒ diciamo ‒ “operaio” (la «Rust Belt» è la regione delle grandi industrie in sofferenza e magari declino) su cui ha puntato il «Make America Great Again» quattro anni fa, il «Keep America Great» del 2020 e l’«America First» sin dai tempi della candidatura, prima Repubblicana (1992 e 1996) e poi indipendente (2000 con il Reform Party), di Patrick J. Buchanan. Il voto Repubblicano è cioè il voto del Sud, ma “di campagna”, più il voto “operaio”, quello Democratico è il voto radical chic delle Coste e dei grandi, o enormi, centri urbani.
Quarto: e le minoranze etniche? Molti neri stanno diventando rossi, cioè Repubblicani. Ci sarà tempo per ragionare con precisione sui dati esatti quando perverranno, ma è già opinione condivisa, d’acchito, bipartisan che Trump abbia fatto molto bene, e meglio di quanto previsto (o temuto dai Democratici), in una certa parte del voto afro-americano e tra i latinos. Il voto della Florida, Stato in bilico assegnato però piuttosto presto a Trump, lo dimostra bene. Resta ancora da conquistare un certo elettorato etnico nel Sud-ovest, e dell’Est, ma il percorso è virtuosamente iniziato. Il Partito Repubblicano ha finalmente imparato la lezione del tempo odierno: andare oltre l’élite bianca. Spinta decisiva in questa direzione l’ha dato proprio il Trump descritto come razzista con la sua enfasi “operaista”, e i risultati cominciano a vedersi.
Quinto, resta però ancora da caratterizzare la cultura del “tipo di campagna” (ma anche dell’“operaio”, del “nero”, dell’”ispanico” e così via) che vota oramai convintamente Repubblicano. È il momento, cioè, di parlare di valori o, meglio, dei princìpi (i valori si scambiano, i princìpi fondano). Bastano pochi flash per intendersi. Le suore spammate sul web che ai comizi elettorali in Stati “operai” sventolano il «Keep America Great Again», il “voto cattolico” per Trump, il voto conservatore, il «Dio, patria, famiglia» (non ricordo più da chi ho sentito dire, la notte scorsa, nella maratona di Fox News, di avere votato Trump per combattere l’aborto, difendere la libertà vera e sostanzialmente restaurare il Paese) e – emblematico – il successo del senatore afro-americano John E. James nel Michigan “operaio”. Sul fronte Biden, invece, i Democratici hanno eletto Tim McBride nel Delaware progressista della Costa orientale, il primo senatore transgender: adesso si fa chiamare universalmente «Sarah».
Lo scontro oggi in atto nel Paese è questo. Il risultato finale delle urne arriverà fra ore o giorni, ma Trump ha già vinto. Nel 2016 era dato per spacciato e vinse, quest’anno era dato per defunto e sta performando benissimo. Ma soprattutto è il mondo che, simpatico o no che Trump sia, il presidente in carica alla ricerca del secondo mandato si porta dietro. È questo che Trump ha detto la notte scorsa. Lo si è accusato di vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato e invece ha ringraziato quel Paese reale che, comunque sia, sta resistendo granitico sui princìpi non negoziabili che la sua presidenza ha saldamente difeso e promosso, assieme a dossier più negoziabili dove pure ha fatto bene (economia in crescita, meno tasse, disoccupazione ai minimi storici, inizio di pacificazione del Medioriente, meno guerre, e così via). L’intervento notturno di Biden, invece (il leader Democratico è stato il primo a interrompere il silenzio stampa, scatenando la reazione dell’avversario), è servito a tirare le briglie a quella folla che da ore non aspetta altro che scatenare la furia per le strade qualora vincesse Trump. È tipico delle opzioni totalitarie: quanto perdono sul terreno della ragione, passano alla violenza.