Un programma di rimpatrio in Burundi per 116.000 rifugiati in Tanzania
Occorre con urgenza un piano organico per evitare che la decisione di Burundi e Tanzania di rimpatriare entro l’anno decine di migliaia di rifugiati crei una nuova emergenza umanitaria
Sono più di 400.000 gli abitanti del Burundi che nel 2015 hanno lasciato il paese devastato da violente manifestazioni di protesta per la decisione del presidente Pierre Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato, violando la costituzione, e dall’altrettanto violenta repressione governativa. Quasi tutti hanno chiesto asilo nel vicino Tanzania. Dal 2017 è iniziato un lento rimpatrio. Finora sono circa 62.000 i rifugiati che hanno deciso di tornare a casa. Molti di loro, però, intervistati dalla Refugee Rights Initiative, hanno spiegato che a indurli a lasciare il Tanzania erano state le pessime condizioni dei campi profughi e il rischio di abusi se ne uscivano. Il rientro a casa per quasi tutti è stato traumatico perché, per mancanza di fondi, non hanno ricevuto adeguata assistenza: niente più che il trasporto oltre confine, piccole quantità di generi alimentari e di prima necessità e un po’ di denaro. Desta quindi molta preoccupazione l’annuncio che i governi di Burundi e Tanzania intendono rimpatriare 116.000 persone entro la fine del 2019. La comunità internazionale deve agire tempestivamente per far sì che i rimpatri siano volontari e per garantire ai profughi tutto il sostegno di cui hanno bisogno per un dignitoso, definitivo reinserimento in Burundi. Un flusso di rimpatri di così grandi proporzioni, se organizzato e gestito male, rischia di alimentare nuovi conflitti e ulteriori ondate di profughi, tanto più che la situazione politica del Burundi resta critica e il tradizionale antagonismo etnico, tra Hutu e Tutsi, rappresenta tuttora un elemento di instabilità sempre a rischio di degenerare in guerra civile come nel passato.