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LA CRISI NELLA CHIESA

Un pontificato che ha incarnato il presunto "spirito" del Concilio

Il pensiero del teologo Romano Amerio costituisce una chiave ermeneutica per comprendere le implicazioni dottrinali, antropologiche e filosofiche di quanto espresso in questi anni da papa Francesco.

Ecclesia 23_04_2025

Il pontificato di Papa Francesco (2013-2025), conclusosi con la sua morte il 21 aprile 2025 e di fronte alla quale ogni credente é chiamato a pregare invocando l'infinita misericordia del Signore, ha segnato uno snodo storico di grande complessità per la Chiesa cattolica. Nel tentativo di incarnare una riforma ispirata all’"ethos" pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), il Papa ha impresso una svolta che, pur animata da intenzioni misericordiose, ha lasciato emergere con maggiore evidenza rispetto al passato le tensioni strutturali che già gravavano sull’istituzione ecclesiale da decenni. In questo senso, il pensiero di Romano Amerio (1905-1997), insigne teologo di origine svizzera, costituisce una chiave ermeneutica di rilevante profondità per comprendere le implicazioni dottrinali, antropologiche e filosofiche di questo pontificato.

Amerio, nella sua opera capitale "Iota Unum", non si limita a un’analisi storica degli effetti del Concilio Vaticano II, ma propone una diagnosi metafisica della crisi della Chiesa, individuata nella dissoluzione della forma mentis tradizionale, che trova la sua radice in una alterazione del rapporto tra verità e carità, tra dottrina e prassi. Egli parla di una «mutazione sostanziale della coscienza ecclesiale» dove la nozione di verità, un tempo intesa come oggettiva, rivelata e immutabile, è progressivamente subordinata a istanze pragmatiche, psicologiche, pastorali. In questa luce, molte delle scelte compiute da papa Francesco sembrano inscriversi non come causa prima, quanto come accelerazione di una deriva già in atto, in cui l’identità cattolica viene intesa in termini esistenziali piuttosto che ontologici. L’Esortazione Apostolica post-sinodale "Amoris Laetitia" del 2016, con l’ambiguità dei suoi passaggi riguardanti la possibilità (non indicata espressamente e, come tale, oggetto di interpretazioni divergenti tra le diverse Conferenze episcopali) di accesso ai sacramenti per i divorziati risposati, ha esemplificato emblematicamente questa transizione: una forma di pastorale che, anziché partire dalla norma oggettiva per applicarla con discernimento, tende a relativizzarla nel concreto esistenziale del soggetto.

Amerio avrebbe visto in ciò un sintomo della "eterogenesi dei fini" post-conciliare, dove l’intento di avvicinare l’uomo contemporaneo conduce inavvertitamente a uno svuotamento della struttura razionale della fede, intaccando la sua coerenza metafisica e dogmatica. Il principio di non contraddizione, così centrale nella riflessione tomista e nella Tradizione ecclesiale, appare attenuato in nome di un dialogo che spesso diventa fine a sé stesso, o peggio, strumento di autonegazione. Papa Francesco ha più volte insistito sul primato della misericordia come chiave interpretativa del Vangelo. Tuttavia, in che misura una misericordia disancorata dalla verità può realmente edificare? Amerio, con una lucidità tragica, aveva già anticipato che una carità disgiunta dalla verità è destinata a divenire filantropia sentimentale, e la pastorale, senza radicamento nella metafisica dell’essere, si trasforma in sociologia sacrale.

Ciò che ne deriva non è una Chiesa rinnovata, ma una Chiesa de-istituzionalizzata, che smarrisce la propria autorità profetica nel mondo contemporaneo, proprio perché cerca di parlargli con la sua lingua, ma rinunciando alla propria. In modo emblematico, questa dinamica ha trovato la sua espressione più strutturale nella promozione insistente del concetto di sinodalità. Nella sua accezione tradizionale, la sinodalità è sempre stata concepita come un processo consultivo, subordinato alla funzione magisteriale del Papa e dei vescovi uniti a lui, secondo un principio di gerarchia sacramentale e dottrinale che riflette l’ordine stesso della realtà partecipata: Dio è principio e misura di ogni cosa, e la Chiesa è forma visibile di questa ordinata comunicazione della verità. Con Francesco, invece, la sinodalità ha teso a diventare forma strutturale dell’essere ecclesiale, con il rischio implicito di trasformare l’autorità da funzione derivativa del "munus petrino" a esito consensuale di un dialogo continuo e indefinito.

Questo passaggio, per quanto spesso occultato da un linguaggio spiritualizzante, ha il sapore di una ecclesiologia immanentista, dove la verità sembra emergere dal basso, come frutto di una sintesi dinamica, piuttosto che essere accolta dall’alto, come dono soprannaturale custodito fedelmente dal Magistero. Il sinodo sulla sinodalità, che ci auguriamo il nuovo Pontefice interrompa, il linguaggio deliberatamente aperto adottato in molte delle sue fasi e la continua tensione tra ascolto e autorità, sembrano confermare ciò che Amerio definiva una "trasferenza dal verticale all’orizzontale" dell’identità ecclesiale: non più "Ecclesia docens e discens", ma una comunità autopoietica, in dialogo indefinito con se stessa e col mondo, senza più un baricentro metafisico stabile.
Il linguaggio stesso dei Sinodi ha mostrato una tendenza all’adozione di formule volutamente ambigue, prive di definizione teologica precisa, in cui si intravede l’influsso del linguaggio sociologico e psicologico contemporaneo più che della teologia classica. Temi come l’omosessualità, il ruolo delle donne, il diaconato femminile e la ministerialità laica sono stati affrontati secondo logiche di equilibrio politico, più che secondo criteri dottrinali.
Il principio della "ascoltanza", presentato come superiore a quello dell’insegnamento, rischia di sfociare in una ecclesiologia democratica, che dissolve il "munus docendi" in una orizzontalità procedurale. In tal senso, la sinodalità, anziché rinsaldare la comunione ecclesiale, ha prodotto, almeno in parte, maggiore disorientamento e disgregazione.

Il pontificato di Francesco, così, si presenta come una parabola in cui si rende visibile, in atto, ciò che Amerio ha diagnosticato in potenza. La crisi della Chiesa non nasce con Papa Francesco, né si conclude con lui; ma in lui essa trova una forma esplicita e paradigmatica, che costringe teologi, filosofi e pastori a interrogarsi non tanto sul "che fare", ma sul "che cosa siamo diventati". La morte del Papa potrebbe, dunque, segnare non solo la fine di un’epoca, ma anche un "kairos" per un ritorno all’essenziale: a quella sapienza dell’essere e della verità, in cui sola la carità può ritrovare il suo significato autentico.