Umbria, la delibera che prova l’ipocrisia degli abortisti
La Regione Umbria approva una delibera che prevede il ricovero ordinario di tre giorni, più sicuro di quello in day hospital, per l’aborto con RU486. Si seguono così la legge e le linee guida ministeriali. Ma gli abortisti protestano, dimostrando ancora una volta di non essere interessati alla salute delle donne. Al contempo è eccessivo l’entusiasmo di alcuni pro life, perché il male - dell’aborto - rimane.
Dietro alla pandemia da Coronavirus dilaga, ma ben nascosta agli occhi dei più, la pandemia da aborto. Contrariamente alla prima pandemia, questa seconda, se dà segni di rallentare la sua diffusione, provoca reazioni allarmate e scomposte.
È il caso, alquanto significativo, della Giunta della Regione Umbria che il 10 giugno scorso ha approvato una delibera in cui sono contenute delle Linee di indirizzo per le attività sanitarie nella fase 3. In esse si decide di superare quanto previsto dalla delibera della Giunta regionale n. 1417 del 4 dicembre 2018 relativamente al protocollo di somministrazione della RU486, la famigerata pillola abortiva (rectius, la famigerata doppia pillola abortiva: il mifepristone, che uccide il nascituro, e una prostaglandina, che espelle il feto, da assumersi a distanza di 48 ore l’una dall’altra). Non più ricovero in day hospital, bensì ricovero ordinario di tre giorni, almeno fino all’espulsione del feto.
I filo-abortisti ovviamente hanno mal digerito questa delibera non perché gli aborti diminuiranno - ahinoi, non un aborto in meno ci sarà - bensì perché all’opinione pubblica appare più semplice abortire in day hospital, rispetto al ricovero ordinario.
Le Linee di indirizzo prima indicate così recitano sul punto in questione: «Relativamente al metodo farmacologico RU486 si dispone il superamento delle indicazioni previste dalla DGR 1417 del 4 dicembre 2018 “interruzione volontaria di gravidanza con metodica farmacologica” relativamente all’opportunità di somministrare la RU486 in regime di ricovero in day hospital. Infatti le indicazioni ministeriali del 24 giugno 2010 “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza” e i pareri del Consiglio Superiore di Sanità del 18 marzo 2004, del 20 dicembre 2005 e del 18 marzo 2010 ribadiscono la necessità di “regime di ricovero ordinario”».
Andiamo dunque a leggere, per la parte che a noi interessa, queste “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza” emanate dal Ministero della Salute dopo plurimi pareri del Consiglio Superiore di Sanità: «L’aborto farmacologico potrà essere effettuato solo in ricovero ordinario, nella maggior parte dei casi della durata di tre giorni, fino cioè all’espulsione del materiale abortivo [sic!]».
Ma perché prima il Ministero della Sanità e poi la Regione Umbria hanno optato per il ricovero ordinario e non per il day hospital? A dircelo sono sempre le Linee di indirizzo ministeriali: «Il Consiglio Superiore di Sanità ha ritenuto necessario, per rispettare le basi giuridiche enunciate nella legge n. 194, il regime di ricovero ordinario (che prevede l’assegnazione di un posto letto e la permanenza continuativa della paziente con pernottamento nella struttura ospedaliera) per l’intera procedura abortiva, nelle sue diverse fasi». Una prima motivazione ha quindi carattere giuridico: la legge 194 del 1978 che ha legittimato l’aborto procurato nel nostro Paese prevede che tutto l’iter abortivo si svolga all’interno delle strutture ospedaliere o delle case di cura autorizzate (art. 8). Ricordiamo che i movimenti abortisti dell’epoca - quegli stessi che oggi protestano contro la decisione della Regione Umbria - spingevano per l’aborto ospedalizzato per strapparlo dalla clandestinità degli ambulatori o delle case private.
Per quale motivo la procedura abortiva deve iniziare e finire solo all’interno di un ospedale? Rispondono sempre le Linee ministeriali citando innanzitutto un parere del Consiglio Superiore della Sanità del 18 marzo del 2004: «I rischi connessi all’interruzione farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti alla interruzione chirurgica solo se l’interruzione di gravidanza avviene in ambito ospedaliero» e tra le motivazioni addotte si cita «la non prevedibilità del momento in cui avviene l’aborto».
Poi il Ministero cita anche un delibera dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, del 30 luglio del 2009, in cui si afferma che «l’utilizzo del farmaco è subordinato al rigoroso rispetto della legge n. 194 del 1978 a garanzia e a tutela della salute della donna; in particolare deve essere garantito il ricovero in una delle strutture sanitarie individuate dall’art. 8 della legge n. 194 del 1978 dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento». Ma quali rischi corre la donna, così elevati da imporre il ricovero ordinario? La delibera dell’Aifa spiega che il costante monitoraggio, che può avvenire solo in ospedale, vuole «ridurre al minimo le reazioni avverse segnalate, quali emorragie, infezioni ed eventi fatali». Infatti il foglietto illustrativo della RU486, nonché ampia letteratura scientifica, «avvertono sui rischi teratogeni connessi alla possibilità del fallimento dell'interruzione farmacologica di gravidanza e del sensibile incremento del tasso di complicazioni in relazione alla durata della gestazione».
In sintesi, il Ministero e la Regione Umbria hanno deciso per il ricovero ordinario perché pratica più sicura per la salute della donna, criterio che è stato e che è tuttora il principio cardine della legge 194. L’aborto è un “diritto”, così si continua a ripetere, perché tutela la salute della donna: falso, se andiamo a vedere i dati emersi nell’ambito della ricerca scientifica sui danni fisici-psichici del post aborto. Ma ora gli abortisti insorgono addirittura contro la delibera umbra e il criterio della salute della donna viene messo da parte perché i militanti pro choice preferiscono un aborto insicuro ma domestico, perché di più facile accesso e quindi più fruibile e maggiormente diffuso, rispetto ad un aborto sicuro, ma meno “vendibile”. Prova ulteriore del fatto che della salute della donna non importa niente a costoro, interessati solo a rendere l’aborto sempre più diffuso.
Un paio di note finali che riguardano noi cattolici o comunque i difensori della vita. Alle reazioni indignate del fronte abortista a seguito della delibera della Giunta umbra ha fatto da contraltare l’entusiasmo di alcuni pro life. Segno dei tempi: siam messi così male che si esulta per il fatto che la procedura per uccidere i bambini non ancora nati debba avvenire interamente in ospedale e non più tra ospedale e casa.
Seconda nota che vuole mettere in evidenza una serie di paradossi: preferendo l’aborto ospedalizzato rispetto a quello domestico, ci mostriamo ormai felici di assicurare alla donna un modo più sicuro di abortire, dimentichi sia del fatto che tra due mali, uno maggiore e uno minore, noi abbiamo il dovere di rifiutarli entrambi, sia del fatto che, perseguendo un doveroso fine di deterrenza, maggiori difficoltà si hanno per compiere il male, meglio è e quindi non dovremmo battagliare per far passare soluzioni più comode per abortire, sia infine del fatto che i rischi connessi su chi vuole l’aborto devono giustamente ricadere su quest’ultima persona. Ciò indipendentemente dalla considerazione che, dato che l’aborto farmacologico-domestico potrebbe contribuire a diffondere ancor di più il fenomeno abortivo, dovremmo ostacolarlo con ogni mezzo. Ma al pari dell’aborto chirurgico ospedalizzato.