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Ultima Cena, segreto da svelare all'uomo di oggi

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Per capire l'Ultima Cena, l'uomo contemporaneo deve infilarsi le lenti di un ebreo del primo secolo. Il Timone porta in Italia lo straordinario viaggio di Brant Pitre nelle radici ebraiche della Coena Domini, che, partendo dal pasto celeste di Mosè sul Sinai fino all'ultimo calice bevuto sulla croce da Gesù, spiega perché il cristiano non è un cannibale, ma mangia un corpo risorto.
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Ecclesia 06_04_2023

Che cosa davvero è successo nell’Ultima cena? Perché Gesù ha utilizzato proprio il pane e il vino? E come possiamo credere alla presenza reale di Gesù nell’Eucarestia senza lasciarci sfiorare dal dubbio – utilizzato molte volte dai pagani – di cannibalismo? Andare alla ricerca delle radici della fede, partendo dall’evento centrale della Passione e Risurrezione del Cristo, è un’operazione che comporta uno sforzo non indifferente per noi, uomini di oggi, ma necessario.

Per certi versi, ai primi cristiani, che provenivano dall’ebraismo, fu più facile comprendere la molteplicità di riti e gesti compiuti da Gesù nel Cenacolo fino alla crocifissione dove pronuncia il “tutto è compiuto”, perché tutto era riconducibile all’esperienza della fede ebraica che fungeva da sostrato culturale e cultuale attraverso la Scrittura veterotestamentaria e la tradizione giudaica.

È con queste premesse che inizia lo straordinario viaggio di Brant Pitre nei Misteri dell’Ultima Cena (QUI per ordinarlo), che arriva in Italia grazie alla traduzione (a cura di Roberto Manfredini) che il mensile Il Timone ha pubblicato e messo a disposizione per il pubblico italiano in un libro da leggere tutto d’un fiato e che può nutrire anche il fedele meno esperto, in questi giorni di triduo che iniziano oggi con la Missa in Coena Domini.

Il viaggio di Pitre, professore di Sacra Scrittura al Notre Dame Seminary di New Orleans, non è solo un’operazione esegetica magistrale, ma è un cammino di scoperta personale iniziato come sfida dialettica ingaggiata con il pastore battista, al quale si era rivolto per ottenere il permesso di sposare la sua fidanzata Elisabeth. Lui cattolico, alle prese col pastore che lo provocava con le classiche argomentazioni protestanti per negare la presenza reale di Gesù nell’Ostia e accusare i cattolici – come già fecero gli antichi greci – di cannibalismo. Dopo una notte insonne, Pitre inizia la sua discesa nelle Scritture per riemergere come un uomo finalmente consapevole della straordinaria veridicità di tutto ciò che i Vangeli raccontano dell’Ultima Cena.

Il libro, scritto con semplicità, porta il lettore in un itinerario meraviglioso alla ricerca di tutti quegli elementi fondativi dell’Ultima Cena e della Passione, che ogni ebreo poteva ricondurre alla sua cultura, per poter accettare con disarmante semplicità che «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo resusciterò nell’ultimo giorno». Parole che gli stessi Apostoli avevano definito «dure» e che soltanto alla fine di questo cammino, culminando con la prima liturgia eucaristica della storia a Emmaus, si comprendono appieno.

Pitre sonda così la storia ebraica partendo dalla proibizione levitica di bere il sangue e che rende le parole di Gesù nel Cenacolo solo apparentemente oscure. La “tecnica” utilizzata è quella di sforzarsi di vedere le cose non con le nostre lenti, ma con quelle di un antico ebreo, la cui fede, unica nel panorama dell’epoca, poteva consentire loro di credere che il pane e il vino dell’Eucarestia fossero realmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo e non un simbolo o un rimando.

Tutto inizia con la stipula dell’antica alleanza tra le dodici tribù d’Israele e Dio sul Sinai. È lì che inizia una nuova relazione tra Dio e il popolo, fatto uscire dalla terra d’Egitto perché potesse adorarlo come Lui richiedeva. È lì che l’alleanza si suggella con il rituale del sangue sparso sull’altare ed è lì che Mosè, con gli anziani, partecipa al banchetto celeste, futura prefigurazione della Cena cristiana. «Una delle cose che fanno le famiglie è mangiare assieme», dice Pitre. Così fu per Dio con il suo popolo. Popolo al quale poi fu dato il Pane della presenza, che la tradizione giudaica conservava come “il volto di Dio” in un luogo separato dal resto, il tabernacolo. Ed è sempre lì che il popolo di Dio viene nutrito con la manna, il misterioso Pane dal Cielo fornito quotidianamente per 40 anni.

Da quell’esperienza, gli israeliti codificarono il rituale della Pasqua che arrivò ai giorni di Gesù secondo uno schema liturgico ben preciso fatto di 5 fondamentali passi: scegliere un agnello, sacrificarlo, aspergere il suo sangue, mangiarne le carni e celebrare la Pasqua come eterno memoriale dell’esodo.

Un sacrificio e contemporaneamente un pasto, che nessun ebreo avrebbe mai potuto ignorare.

Gesù non fa altro che inserirsi come Messia di questo Nuovo esodo. Tutto negli ultimi tre giorni della sua vita terrena a Gerusalemme lo richiama. A cominciare dal fatto che gli agnelli che venivano sacrificati e macellati – secondo la Mishnah - erano sostanzialmente crocifissi da spalla a spalla e dalle natiche alla bocca con bastoncini e spiedi: «Ponendo il proprio corpo e il proprio sangue al centro della Nuova Pasqua, Gesù voleva rivelarsi come nuovo agnello pasquale».

Ma il sacrificio non culminava con l’immolazione dell’agnello. Bisognava anche mangiarlo per poter adempiere la legge di Dio ed essere salvati dalla morte.

Quindi, che fare? Qui entra in scena la seconda chiave per capire l’Ultima Cena: il pane e il vino. Quel pane che era stato manna e quel pane che aveva rappresentato la presenza di Dio nel tempio e che solo i sacerdoti potevano mangiare perché memoriale di quello straordinario banchetto celeste di Mosè con Dio a suggello dell’Alleanza.

Presentandosi come nuova manna alla quale fece riferimento nell’unica preghiera da Lui insegnataci, il Padre Nostro, Gesù completa così l’opera della Nuova Pasqua. Analizzando le parole di Luca e Matteo nella traduzione letterale, si comprende come il “nostro pane quotidiano” altro non sia che “il pane soprannaturale”, quello per cui la vulgata latina di San Girolamo parlava di Panem supersubstanzialem. È così che va tradotto il neologismo greco (che si può trovare solo a partire dal passo evangelico) epìousia, inteso come ciò che è “sopra l’essere”. È questa la nuova manna dal cielo a cui gli ebrei del primo secolo credettero immediatamente.

Restava così da sciogliere però l’unico dilemma: come non accusare i cristiani di essere sostanzialmente dei cannibali. Qui Pitre ricorda che solo ad Emmaus si comprese tutto: il Corpo che Gesù offre è un Corpo risorto, non più vincolato dallo spazio e dal tempo. Mangiare il Corpo di Cristo è così strettamente collegato alla resurrezione corporea dei credenti nell’ultimo giorno. Lo stesso dicasi per il sangue, la cui proibizione a berlo rimaneva anche ai tempi di Gesù, perché sede della vita secondo la cultura ebraica, ma che nella prospettiva post crocifissione assume tutto il suo significato di risurrezione.

E proprio durante la crocifissione si conclude l’Ultima Cena. Pitre nota, ma questa è solo la sua, suggestiva ipotesi di studio, che dei quattro calici di vino previsti dal rituale ebraico per celebrare la Pasqua, soltanto tre vennero consumati nel Cenacolo. L’ultimo, il quarto, venne bevuto da Gesù sulla croce quando, dicendo «ho sete» ricevette la spugna imbevuta di aceto e adempì così la precedente profezia che «da questo momento non berrò più del frutto della vite finché non venga il regno di Dio». Un gesto decisivo, terminato il quale, pronunciò quel «tutto è compiuto», che chiude così l’Ultima Cena e dopo la Resurrezione apre l’umanità alla promessa di averLo con noi «tutti i giorni, fino alla fine del mondo».