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L’AVVENTURA DEL VIAGGIO/12

Ulisse, la brama dell’uomo di mare

Ulisse, il personaggio della letteratura greca più amato, ancora ai giorni nostri, viene incontrato da Dante nell'Ottava Bolgia dell'Inferno. Dannato per le sue menzogne, non per il suo valore di uomo di mare, che è emblema del desiderio umano di conoscenza.

Cultura 25_08_2013
Ulisse

Ulisse è il personaggio greco che ha più prolungato la sua fama nei secoli successivi fino ad oggi, fino alle rivisitazioni di Joyce e Pascoli o alle sceneggiature cinematografiche. La sua fama così duratura nella Modernità è forse legata al fatto che Ulisse incarna atteggiamenti per così dire già moderni, improntati a furbizia, individualismo, intelligenza, pragmaticità. È l’emblema stesso dell’ingegno, ma, nel contempo, della capacità di sopportazione, della forza militare, della curiosità, della diffidenza, della pazienza. È la figura «più ricca di umanità che la poesia greca abbia creato, nella sua ricchezza singolarissima di prudenza e di coraggio, di curiosità e di intelligenza, di generosità impetuosa e di calcolata freddezza, di lucidità e di cautela, di prontezza sicura e di ostinazione, di fiducia e di dubbio, di caldissima e mobilissima astuzia» (Bosco-Reggio).

Dante incontra Ulisse nella ottava bolgia. Dall’alto del ponte al poeta la bolgia appare come una valle piena di lucciole, nelle sere d’estate. Le fiammelle contengono le anime dei consiglieri di frode, coloro che hanno utilizzato la loro facondia per dare suggerimenti ingannevoli. La forma di lingua richiama, del resto, l’uso fraudolento della parola. Ulisse è contenuto insieme a Diomede, compagno di guerra e di frode, all’interno di una fiamma biforcuta. Così «insieme/a la vendetta vanno come a l'ira» di Dio. Tre sono i peccati di cui si sono macchiati: il furto della statua di Pallade (che difendeva la rocca di Troia), l’inganno del cavallo, il tranello teso ad Achille perché partisse per la guerra. Il fiorentino vuole parlare con il «maggior corno della fiamma antica», cioè Ulisse. Virgilio, però, lo esorta a lasciar parlare lui, perché i due eroi dell’antichità furono greci e, quindi, sarebbero schivi e refrattari dal parlargli. Virgilio che conosce bene il cuore di Dante chiede allora ad Ulisse come si siano conclusi i suoi giorni, come sia finito il suo ultimo viaggio.

Così si dispiega il racconto di Ulisse che ricorda che quando si allontanò da Circe che l’aveva lusingato per più di un anno a Gaeta nessun affetto poté trattenerlo nella terra natia. Ecco le sue parole: «Né dolcezza di figlio, né la pieta/ del vecchio padre, né 'l debito amore/ lo qual dovea Penelopé far lieta,/ vincer potero dentro a me l'ardore/ ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,/ e de li vizi umani e del valore;/ ma misi me per l'alto mare aperto/ sol con un legno e con quella compagna/ picciola da la qual non fui diserto». Ulisse e i compagni visitano così tutte le coste e le isole del Mediterraneo fino a che giungono là dove Ercole pose le colonne (Stretto di Gibilterra), il limite estremo che nessun uomo poteva valicare. Quando il capo vede i compagni assorti e stanchi, li richiama e li sprona a continuare il viaggio con un’orazion «picciola»: «O frati […] che per cento milia/ perigli siete giunti a l'occidente,/ a questa tanto picciola vigilia/ d'i nostri sensi ch'è del rimanente/ non vogliate negar l'esperïenza,/ di retro al sol, del mondo sanza gente./ Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza»./ Li miei compagni fec' io sì aguti,/ con questa orazion picciola, al cammino,/ che a pena poscia li avrei ritenuti».

Tanto è l’ardore di Ulisse che anche i compagni vogliono seguire il proprio desiderio di seguir virtù e conoscenza. «Idem velle atque idem nolle», cioè «desiderare e respingere le stesse cose»: questa è l’amicizia secondo una bellissima definizione di Cicerone. L’amicizia è, quindi, come una strada, un metodo, un percorso in cui si fanno scelte comuni di approvazione o di dissenso per alcuni aspetti o fatti di vita.

Ulisse sprona i compagni al «desiderio del mare aperto», non si sofferma sulla noia del particolare slegato dal desiderio di navigare. Come descrive bene questo atteggiamento Antoine de Saint Exupery nella Cittadella quando scrive: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini. Ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito». Se si togliesse la brama del navigare, per quale motivo si dovrebbe faticare a tagliare la legna? Ulisse è simile alla figura del capo nella Cittadella che istruisce i generali spronandoli ad essere pienamente uomini mantenendo vivo il desiderio e confessa loro: «La torre, la roccaforte o l’impero crescono come l’albero. Esse sono manifestazioni della vita in quanto è necessario che ci sia l’uomo perché nascano. E l’uomo crede di calcolare. Crede che la ragione governi l’erezione delle sue pietre, quando invece la costruzione con quelle pietre è nata dapprima dal suo desiderio. La roccaforte è racchiusa in lui, nell’immagine che porta nel cuore, come l’albero è racchiuso nel seme. I suoi calcoli non fanno altro  che dare forma al suo desiderio e illustrarlo. […] Voi perderete la guerra perché non desiderate nulla».

Tutti gli uomini, che ne siano coscienti oppure no, hanno un obiettivo comune che coincide con il seguire la natura dell’animo umano, quella brama di conoscenza che è innata nell’uomo, così come anche riconosce Aristotele e Dante stesso ricorda nel Convivio: «Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione». La conoscenza della verità, ovvero la sapienza, è non solo connaturata all’uomo, ma è addirittura la perfezione ovvero il compimento della natura umana. Nella conoscenza l’uomo si realizza, si perfeziona nella sua natura. Riecheggiano le parole evangeliche: «La verità vi farà liberi». La veridicità di tali parole è tanto evidente qualora si osservi la natura umana nei bimbi che domandano, si interrogano su tutto, sono curiosi e non smettono mai di chiedere il perché. Questo atteggiamento, che è poi quello proprio della filosofia, si corrompe spesso nel tempo tanto che in molti casi l’uomo sembra considerare la conoscenza come un pesante fardello e un fastidio. Dante al riguardo seleziona il suo destinatario, non scrive per tutti, esclude quanti siano colpiti da «malizia», ovvero non desiderino il bene per sé.

Per Ulisse la compagnia «picciola» coincide con quegli amici con cui ha deciso di intraprendere il viaggio e di andare incontro al destino. Dopo questo discorso i compagni di Ulisse divennero così desiderosi di partire che, poi, a stento lui avrebbe potuto trattenerli. Così, i remi si tramutarono in ali per il «folle volo». Questo aggettivo «folle» rimanda chiaramente al viaggio di Dante, che nel secondo canto dell’Inferno aveva confessato a Virgilio di temere che il suo viaggio potesse essere «folle», cioè temerario, inconsiderato, non sostenuto dalla grazia di Dio. Lì Virgilio lo aveva rassicurato con il racconto delle tre donne venute dal Cielo in suo soccorso. Dante, quindi, lo segue in un rapporto di fiducia e di stima. Ulisse, al contrario, si affida solo alle proprie capacità. La differenza tra Dante e Ulisse descrive la distanza tra l’uomo antico alla ricerca di una verità e l’uomo cristiano che nasce in seguito all’incontro con la Verità.

La nave si dirige verso l’emisfero australe e i membri dell’equipaggio vedono così le stelle dell’altro polo. Ulisse si rallegra con i compagni quando vede da lontano la terra, ma ben presto l’allegria si tramuta in pianto. Dalla montagna si leva un turbine che fa girare «il primo canto» della nave. Infine, la prora si dirige verso il basso e la poppa verso l’alto, finché il mare è richiuso sopra tutti loro. Ulisse non è, però, condannato per il suo viaggio temerario, per il suo desiderio di conoscere il mistero e l’incognito, che è, in un certo modo, paradigmatico della grande statura umana, ma per i tre consigli di frode. Il poeta fiorentino lo precisa bene nel testo sfrondando i dubbi e le interpretazioni che tanta critica letteraria ha voluto offrire. Ancora una volta, però, la dignità, la curiosità, il desiderio e il valore dell’uomo (ci dice Dante) non bastano da soli per salvare l’uomo.