Ucraina, chi può accettare una pace di compromesso
Che sia autentica la bozza di armistizio che ieri è trapelata al Financial Times, da fonti governative ucraine? Fosse vero si preparerebbe lo scenario di una pace di compromesso. Lo scambio è: neutralità dell’Ucraina in cambio di un ritiro dei russi entro i confini della Crimea e del Donbass.
Che sia autentica la bozza di armistizio che ieri è trapelata al Financial Times, da fonti governative ucraine? Tre le ipotesi. Che sia un metodo per prendere tempo da entrambe le parti, che stanno riorganizzando le forze dopo le dure perdite subite nei primi venti giorni di guerra di attrito. Seconda: che sia un modo russo per sondare le intenzioni degli ucraini (quanto sono disposti a perdere). Terza: che sia realmente un accordo di pace su cui si sta discutendo e fornirebbe la base per un armistizio. Prendiamo per vera la terza: il documento, in 15 punti, propone una pace di compromesso. Lo scambio è: neutralità dell’Ucraina in cambio di un ritiro dei russi entro i confini della Crimea e del Donbass.
Per mettere nero su bianco la promessa di neutralità, l’Ucraina dovrebbe annullare la riforma costituzionale voluta dall’ex presidente Petro Poroshenko e votata nel 2017, poi inserita in Costituzione nel 2019, in base alla quale il Paese aspirava ad accedere alla Nato. La Russia imporrebbe così a Kiev una neutralità internazionale, “sul modello austriaco o svedese”. Questo status di neutralità richiede anche che sia vietata la presenza di basi militari straniere sul territorio. Cosa che non richiederebbe un grande sforzo, dato che la legge ucraina già lo vieta. A garantire la neutralità sarebbero tre potenze della Nato: Usa, Regno Unito e Turchia. Gli ucraini ricordano il Memorandum di Budapest del 1994, con cui cedettero alla Russia l’arsenale nucleare ereditato dall’Urss in cambio di una promessa di rispetto dell’indipendenza nei confini attuali. La Russia, nel 2014, ha violato l’accordo di Budapest, occupando e poi annettendo la Crimea. Ora è chiaro che l’Ucraina è alla ricerca di garanzie più solide per un accordo di pace che sancirebbe la sua neutralità in cambio, sempre, della promessa di non violare la sua indipendenza e sovranità.
Il ritiro russo, chiesto come precondizione dagli ucraini prima di accettare qualsiasi nuovo assetto, dovrebbe avvenire da tutti i territori occupati dal 24 febbraio. Ma non, appunto, dalla Crimea e dal Donbass. La Crimea è occupata da otto anni e Mosca la riconosce ormai come parte della Federazione Russa dal 2015. Il Donbass, con le repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk, è di fatto separato ed è occupato da truppe regolari russe dal 22 febbraio. Mosca chiede che l’Ucraina, come condizione di pace, riconosca formalmente l’indipendenza delle due repubbliche e l’annessione della Crimea. Su questo Kiev non intende cedere, perché sarebbe come accettare una mutilazione del proprio territorio dopo un atto di forza del nemico. Ma non chiude neppure la porta: l’indipendenza delle prime e l’annessione della seconda saranno oggetto di una trattativa separata.
Non è detto che l’intenzione sia autentica, appunto, visto che la guerra sta proseguendo come se queste proposte non esistessero neppure. Ieri è stata duramente colpita Mariupol, assediata dai russi, e una bomba ha centrato in pieno il teatro, pieno zeppo di civili che vi si erano rifugiati. In attesa di sapere ancora il numero delle vittime, i russi negano ogni responsabilità. Nel frattempo, gli ucraini hanno annunciato che inizierà presto una controffensiva. Per ora hanno condotto solo piccoli contrattacchi locali, probabilmente nei prossimi giorni vedremo una manovra più ampia. La guerra, dunque, si intensifica, non sta affatto spegnendosi.
Eppure queste linee guida per giungere ad un armistizio sono quanto di più solido e realistico si sia visto finora. Dimostrerebbero che Putin ha accantonato la sua idea di vittoria totale, di rovesciare il governo ucraino, quella “demilitatizzazione” e “denazificazione” che aveva annunciato nel giorno dell’invasione. Gli ucraini, dal canto loro, devono accettare il sacrificio della neutralità, rinunciando ad un’aspirazione ormai più che decennale all’ingresso nella Nato.
È ancor più difficile che l’Ucraina accetti le richieste territoriali russe: l’annessione della Crimea e l’indipendenza di Donetsk e Lugansk. Più probabile, visti i precedenti recenti (Cipro Nord occupata dai turchi, Abkhazia, Ossezia meridionale e Transnistria dai russi) che si arrivi ad una separazione “di fatto”, mai riconosciuta dal governo centrale, né dalla comunità internazionale. La buona notizia, per Kiev, è però quella di preservare l’indipendenza. E non è poco, considerando le premesse. Se questa fosse la pace, Putin avrebbe ancora la possibilità di proclamare la vittoria in patria, per il Donbass e per la Crimea, che però già di fatto controllava. Ma svanisce del tutto quello “spazio spirituale” comune, quella riunificazione fra Russia e Ucraina che aveva annunciato come obiettivo finale dell’offensiva. E non avrebbe neppure ottenuto l’intimidazione, né tantomeno la smilitarizzazione del fianco orientale della Nato. Si ritroverebbe, all’indomani della guerra, con un’Ucraina ancora più ostile ai russi. E con una Nato, ai confini, molto più compatta e armata.
Perciò è lecito dubitare che Mosca accetti di fermare la guerra, a queste condizioni, a meno che le perdite militari russe (mai dichiarate, se non nella prima settimana e parzialmente) non siano ormai divenute insostenibili.