Tutte le occasioni che l'Italia non può perdere
Il 2017 ha un'agenda ricchissima di grandi scommesse internazionali per la politica estera italiana: il G7 di Taormina, il 60mo anniversario dei Trattati europei, la nostra presenza al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Il governo Renzi non ha saputo dare un nuovo ruolo al paese. Gentiloni farà meglio?
L’anno in corso dovrebbe essere per il nostro Paese quello delle grandi occasioni in sede internazionale: siamo presidenti di turno del G7, e in questa veste il 26 e 27 maggio ospiteremo il suo vertice a Taormina. Due mesi prima, il 25 marzo, verrà celebrato a Roma il 60° anniversario dei trattati che diedero il via alla nascita della istituzioni europee. Entrambi gli eventi sono tanto importanti quanto delicati: il primo perché segna l’entrata del nuovo presidente americano Trump sulla scena internazionale; il secondo perché l’Unione Europea è nella situazione in cui è.
Il governo sfrutterà bene queste occasioni o c’è da temere il peggio? La magrissima figura fatta di recente alle Nazioni Unite induce ahimè a propendere per la seconda ipotesi. Lo scorso 1 gennaio il nostro Paese è entrato a far parte del Consiglio di Sicurezza in veste di membro non permanente, e le trombe dei giornali e dei telegiornali filogovernativi hanno squillato a vittoria, ma la realtà delle cose è ben diversa. Per il biennio 2017-2018 per i due seggi non permanenti attribuiti ai Paesi europei era stata in precedenza concordata la candidatura della Svezia e dei Paesi Bassi. Era una scelta sbilanciata, trattandosi in entrambi i casi di Stati dell’Europa del Nord, e ci si sarebbe dovuti opporre subito, ma ormai era una scelta fatta. Nel giugno dell’anno scorso, premier Renzi e ministro degli Esteri Gentiloni, l’Italia si è invece ugualmente candidata togliendo voti ai Paesi Bassi ma senza riuscire a metterli fuori gioco. Dal pasticcio si è infine venuti fuori con un compromesso di bassa lega: il biennio è stato suddiviso in due turni di un anno, il primo assegnato all’Italia e il secondo ai Paesi Bassi.
L’episodio conferma ancora una volta quanto casuale e maldestra possa essere la nostra politica estera; e allunga ombre non solo sui due eventi più sopra ricordati ma anche su altri in calendario nel corrente anno: il vertice del G20, fissato il 7-8 luglio ad Amburgo sotto la presidenza tedesca; e nell’estate, in date ancora da definire, il vertice sui Balcani occidentali sotto la presidenza italiana nel quadro del cosiddetto “Processo di Berlino”. In tutta questa girandola di cruciali eventi diplomatici le sorti dell’Italia sono nelle mani di Paolo Gentiloni e del suo successore alla Farnesina Angelino Alfano. C’è di che compiacersi o di che rabbrividire? Lasciamo la scelta al lettore invitandolo farla in cuor suo, e per amor di patria a tenersela per sé.
La carenza di una politica estera forte e chiaramente orientata al nostro obiettivo ruolo è tanto più grave se si considera la particolare posizione del nostro Paese, membro del G7 e membro fondatore delle istituzioni europee, ma tuttavia prossimo sia all’emisfero Sud che ai Balcani. Tanto nell’ambito del G7 quanto in quello dell’Unione Europea possiamo stare e pesare soltanto nella misura in cui diveniamo in certo modo portatori non solo del nostro interesse nazionale strettamente inteso ma anche di quello dei Paesi mediterranei e dei Paesi danubiani. E più in genere se, facendo tesoro di tutti i rapporti che ci derivano dalla diaspora italiana nel mondo e dalla nostra influenza culturale, riusciamo ad assumere un peso e un ruolo superiore a quello che compete allo Stato italiano in sè. Senza farci portatori di tutto questo pesiamo poco. Pesiamo poco in Europa dove, con buona pace delle incursioni corsare del Renzi premier, non abbiamo alcuna possibilità di aprirci un varco nello stretto abbraccio tra Germania e Francia. E pesiamo ancor meno nel G7 dove gli Stati Uniti parlano con la Germania, il Giappone e la Gran Bretagna, salutano da lontano la Francia, danno pacche sulle spalle al Canada e a noi si limitano a fare un ganascino.
L’atlantismo è finito, e non tornerà più. Questo non vuol dire che Washington sparirà dallo scacchiere euro-mediterraneo. Significa però che non intende più farsi carico di responsabilità che non sono sue. Quindi anche delle responsabilità che la storia e la geografia assegnano al nostro Paese. Pretendere che non sia così, e che gli Usa tornino al loro ruolo “atlantico” di Babbo Natale, peraltro ben più bonario nella forma che nella sostanza, è una perdita di tempo.
In quanto all’Unione Europea la sua crisi era inevitabile. Si è preteso di continuare a costruirla sulla base degli accordi di Maastricht, elaborati prima della caduta del Muro di Berlino, quando ormai, caduto il Muro, finita la Guerra fredda e tornata in scena l’Europa orientale, il quadro era mutato completamente. Perciò in particolare sia a Roma in marzo che a Taormina in maggio il nostro Paese dovrebbe presentarsi con proposte nuove e forti, senza accontentarsi della sfavillante ma modesta parte del grande cerimoniere che si autoincensa. Come andrà davvero a finire? Si accettano scommesse.